Vince il NO, il divorzio resta in piedi Il referendum abrogativo registra un’altissima percentuale: alle urne l’87,7% degli italiani

«L’Italia è un paese moderno». «Grande vittoria della libertà». «Il popolo italiano fa prevalere la ragione, il diritto, la civiltà». Sono alcuni dei titoli apparsi sulle prime pagine dei giornali, a commento del risultato del referendum abrogativo della legge sul divorzio, che scrive per l’Italia un orizzonte diverso nei costumi sociali e nel rapporto tra opinione pubblica e religione.
«L’uomo non osi separare ciò che Dio ha unito» è l’imperativo del credo cattolico che per secoli ha inibito qualsiasi tentativo di mettere in discussione il vincolo indissolubile del matrimonio. A parte qualche velleitaria iniziativa ad inizio Novecento, la materia torna prepotentemente alla ribalta nella seconda metà degli anni Sessanta, grazie a un ampio movimento d’opinione nella società cui corrisponde un clima politico favorevole in Parlamento. È il deputato socialista Loris Fortuna a presentare per primo un progetto di Legge per il divorzio, integrato successivamente con il testo del liberale Antonio Baslini. Per sensibilizzare la gente, il Partito Radicale e la Lega italiana per l’istituzione del divorzio scendono in piazza.
La convergenza tra Comunisti, Liberali, Radicali e Socialisti porta a un risultato epocale: il 1° dicembre 1970 viene approvata la legge n. 898 Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, ribattezzata “legge Fortuna-Baslini”. Con buona pace della Democrazia Cristiana, il divorzio entra nell’ordinamento italiano. Il provvedimento riconosce la cessazione degli effetti civili del matrimonio, prevedendo il passo iniziale della separazione legale, periodo in cui i coniugi dimostrano di non coabitare.Il mondo cattolico non ci sta e corre ai ripari, facendo partire la raccolta firme per presentare una richiesta di referendum abrogativo. Nel giugno del 1971 i comitati antidivorzisti depositano più di un milione di firme presso l’Ufficio centrale della Corte di Cassazione, che il 6 dicembre ne conferma la validità. Inizialmente fissato per l’11 giugno 1972, il voto slitta al 12 maggio del 1974 per via dello scioglimento anticipato delle Camere, deciso dal Presidente della Repubblica, Giovanni Leone.
I sostenitori del “sì” trovano nel segretario politico della DC, Amintore Fanfani, un acceso portavoce e protagonista di una campagna aggressiva che non lascia spazio al dialogo con la parte avversa. I toni usati dal segretario spiazzano i suoi stessi compagni di partito, convinti che questa strategia possa intaccare l’ampio consenso dello “scudocrociato”. Di contro le alte gerarchie vaticane fanno sentire il proprio peso, chiedendo il massimo impegno per la vittoria del sì. L’altro partito che sostiene il “sì” è il Movimento Sociale Italiano. L’area del “no” ne raccoglie sei: PCI, PSI, Liberali, Radicali, Repubblicani e il Partito Socialista Democratico Italiano. La partecipazione al voto è da record: in 33.023.179 si recano alle urne, circa l’87,7% degli aventi diritto. Una soglia che non sarà mai eguagliata nelle consultazioni referendarie successive. Il 40,7% (13.157.558) si pronuncia per l’abrogazione, il 59,3% (19.138.300) vota “no”.