Pensavamo d’aver salpato. Di aver lasciato alle spalle la ferocia antisemita. I rigurgiti fascisti. Le stelle a cinque punte con le scritte dall’eco nazista sulla porta delle case di deportati o ex partigiani. Ma non è così. I “juden hier” sugli usci a Torino, Bologna Cuneo, San Daniele del Friuli… solo per citare gli ultimi episodi, ci ricordano che la lezione della storia è ignorata ancora da molti. Da troppi. Secondo l’ultimo rapporto di Eurispes, il 15,6% degli italiani crede che la Shoah non sia mai avvenuta, quando nel 2004 la percentuale dei negazionisti si attestava al 2,7%. E oggi il 16,1% è concorde nel ritenere eccessivo il numero delle vittime storicamente riportato. Ci ubriachiamo di parole autoassolutorie. Ma poi ci stanno i fatti a inchiodarci.
E Verona? Secondo l’associazione di Roma Lunaria, che pubblica ogni tre anni un libro bianco sui casi di discriminazione razziale in Italia, dal 2015 al 2016, si sono contati 40 episodi di razzismo, che fanno della città dell’amore quella con il primato negativo di episodi simili. Visi e storie invisibili? Per nulla. C’è perfino un gruppo di ragazzotti tifosi dell’Hellas che hanno l’impudenza di cantare ancora oggi a squarciagola che “siamo una squadra fantastica a forma di svastica”. Non contenti, 8 di loro si sono presentati recentemente allo stadio di Bologna con berretti raffiguranti un Hitler stilizzato.
Figure marginali, si dirà. Ininfluenti. Quei rigurgiti nazisti rivelano, in realtà, che la drammatica litania ideologica d’inizio ‘900 non è ancora vissuta come un salmo di una religione fallita. Pochi lo ricordano: le scritte antisemite hanno imperversato in città già negli anni ’60 e ’70 quando richiamarsi a quei simboli era considerata una bestemmia sociale molto più di oggi. La sinagoga è stata oggetto di un attentato incendiario e frequenti i volantinaggi di ciclostilati con immarcescibili aquile i cui artigli reggevano svastiche.
Verona è stata la culla di gruppi eversivi di estrema destra, di cui pochi hanno memoria. Ma alcuni figli di quella stagione sono ancora oggi imbrigliati nelle vicende processuali legate alle stragi più efferate compiute in Italia: Piazza Fontana, a Milano, Piazza della Loggia a Brescia. Non gesti isolati di un singolo. Ma una comunità cresciuta in un brodo di coltura impregnato di farneticazioni naziste. Nella sentenza ordinanza del giudice milanese Guido Salvini Verona e il Veneto erano descritti come «laboratorio di sperimentazione di tecniche di guerra non ortodossa basate sull’uso terroristico di devianza esoteriche religiose o connotazione politica estremistica».
Uno degli slogan più in voga in quegli anni era “il fuoco purificatore”. Quello che avrebbe dovuto mondare i poveri, gli operai, i religiosi, i comunisti. Quello celebrato nei solstizi d’inverno sulle colline di Verona. Quello usato dai componenti (certamente più di due) del gruppo Ludwig, o dai partecipanti alle azioni delle Ronde pirogine antidemocratiche. Sigle che ci evocano ricordi sbiaditi. Avvenimenti che leggiamo con occhi pigri. Spesso strabici. Invece ci raccontano la Verona di oggi. Non solo perché alcuni dei protagonisti di quella stagione continuano a camminarci accanto. Ma perché perfino nell’aula del consiglio comunale (la nostra casa comune) ci sono rigurgiti fascisti, con un uso scandaloso di gesti e simboli di quella stagione. Senza che ciò desti eccessivo scandalo. Con amministratori che in passato hanno spedito inviti per feste dove era solo «gradita la camicia nera». O che denigravano la festa del 25 aprile («una mattanza di soldati che avevano deposto le armi»).
La città delle trame nere, crocevia dell’estremismo di destra in tutte le sue forme, dovrebbe interrogarsi su ciò che è, senza che il pulviscolo lattiginoso della nebbia storica penetri nelle sue ossa. Inconsapevolmente.
Alessandro Farina