La variante brasiliana del Covid-19 “indiscutibilmente genera preoccupazione perché contiene un nucleo di mutazioni genetiche uniche, alcune delle quali rendono la proteina d’aggancio del virus alla cellula umana ‘invisibile’ agli anticorpi che l’uomo può avere prodotto, e d’altro canto” perché “ha evidentemente portato a un cospicuo incremento dei casi nei luoghi della sua identificazione”. A spiegarlo Mauro Minelli, specialista in Immunologia clinica e Allergologia e co-coordinatore della Scuola di specializzazione medica in Scienze dalla nutrizione – Dipartimento di Studi europei Jean Monnet.
“Gli anticorpi umani prodotti contro la forma originaria del virus – sottolinea l’esperto – non riescono a neutralizzare questa nuova variante che riesce a eludere l’azione di blocco esercitata dalle cellule immunizzanti che, pur essendoci, non risultano pienamente efficaci”. Minelli prosegue: “Quindi bisognerà applicarsi per cercare nel più breve tempo possibile di individuare le misure più adeguate per la protezione umana. Intanto continuiamo con l’immunizzazione verso ciò che è certo funzioni”.
La variante brasiliana del virus Sars-CoV2 è stata isolata il 6 gennaio scorso dall’Istituto nazionale giapponese per le malattie infettive (NIID) ed è indicata con la sigla B.1.1.248. Nasce da 12 mutazioni concentrate sulla principale arma del virus, la proteina Spike, e fra queste mutazioni ce ne sono le due già note per rendere il virus più efficace nel contagiarsi, chiamate N501Y e E484K.
“Non sappiamo ora con certezza se il vaccino difende anche dalle varianti, anche se la comunità scientifica è cautamente ottimista. In genere, è bene ribadirlo, i vaccini garantiscono una immunità più alta rispetto a quella derivata dall’infezione naturale. Dovremmo dunque avere un margine di sicurezza più alto”.
La prima variante a essere stata identificata è stata quella indicata con la sigla D614G e nata anche questa da mutazioni concentrare soprattutto sulla proteina Spike. La variante inglese è stata indicata con le sigle 20B/501YD1 oppure B.1.1.7 ed è caratterizzata da ben 23 mutazioni, 14 delle quali sono localizzate sulla proteina Spike. È comparsa in Gran Bretagna nel mese di settembre ed è stata resa nota a metà del dicembre scorso. Fino ad ora è stata rintracciata in 33 Paesi, compresa l’Italia con una ventina di casi. Anche in questo caso a preoccupare è il fatto che la mutazione rilevata nella posizione 501 della proteina Spike può rendere il virus più contagioso.
La variante del virus isolata in ottobre Sudafrica è stata invece indicata con la sigla N501Y, risulta caratterizzata da una maggiore capacità di contagio e da una carica virale più alta, anche questa è legata a più mutazioni localizzate sulla proteina Spike. Altre mutazioni nella stessa proteina hanno portato alla variante N501T, che in Italia è stata isolata a Brescia e che potrebbe risalire ad agosto. Secondo ricerche recenti potrebbe essere una ‘sorella’ della variante inglese, dalla quale si sarebbe separata in marzo. Viene poi indicata con “cluster 5” la variante comparsa negli allevamenti di visoni in Danimarca e trasmessa all’uomo. In Italia sono inoltre diffuse le varianti 20A.EU1 e 20A.EU2, comparse in estate in Spagna e arrivate nel nostro Paese all’inizio dell’autunno.