Il coronavirus non risparmia nessun posto del mondo: è questo che ha imparato Edoardo Venturelli, originario di Verona e studente universitario in Erasmus in Colombia. Edoardo racconta il suo interminabile viaggio dal Sud America in Italia per riuscire a tornare a casa e sfuggire all’ondata di Coronavirus. Senza quasi nessun aiuto dalle istituzioni.
“E’ successo tutto all’improvviso. Io ed un altro ragazzo eravamo appena partiti per trascorrere un weekend fuori città, quando abbiamo saputo che nei giorni successivi avrebbero chiuso tutte le frontiere del paese a causa della pericolosa avanzata del virus. Non sapevamo cosa fare: se rimanere in Colombia fino a giugno come in programma, sperando non arrivasse l’epidemia, oppure se tornare in Italia, a Verona, dove la situazione stava peggiorando di giorno in giorno ma dove almeno potevamo essere al sicuro: a casa nostra. Ma dovevamo prendere una decisione subito. In quei giorni, gli scali per l’Europa stavano chiudendo uno dopo l’altro e gli unici biglietti disponibili venivano venduti a prezzi folli. E nessun volo verso l’Italia. Le linee telefoniche della Farnesina erano intasate, mentre dall’Ambasciata Italiana ci avevano risposto di salire sul primo aereo disponibile per l’Europa, e che da lì poi “avremmo trovato un modo”. E così abbiamo fatto, presi in contropiede da un virus sconosciuto. Dopo aver comprato, in fretta e furia, un biglietto per la Spagna, siamo tornati nel nostro appartamento di Medellìn per fare le valigie e prepare ad andarcene. Consapevoli che sarebbe stato un lungo viaggio, ma impreparati a tutto quello a cui stavamo andando incontro.
La nostra disperata avventura è cominciata proprio da Medellìn, una cittadina dell’entroterra colombiano. Con tutte le valigie appresso, io e il mio compagno di viaggio abbiamo preso un primo aereo per Bogotà, la capitale. Da lì, una volta in aeroporto e pronti all’imbarco per Barcellona, non abbiamo fatto altro che guardare il tabellone: decine di voli cancellati e passeggeri rimasti bloccati, senza sapere come riuscire a tornare nel loro paese. La tensione che sopprimessero anche il nostro volo, l’unico disponibile, si poteva tagliare con il coltello. All’improvviso è arrivato l’annuncio: i passeggeri erano attesi al gate. Fortunatamente, siamo riusciti ad arrivare in Spagna. Ma attraversare l’Oceano, in confronto, si poi è rivelato un gioco da ragazzi. In un paese già bloccato per la quarantena, con bar e ristoranti chiusi, il divieto di circolare per le strade e una trentina di chili di bagagli appresso, non avevamo un posto dove stare. L’unico modo per riuscire ad arrivare in Italia era prendere un traghetto il giorno successivo. Abbiamo trascorso la notte nell’unico hotel aperto che abbiamo trovato, che avrebbe chiuso definitivamente dal giorno dopo. L’indomani allora siamo saliti sul battello, muniti di mascherine e di mille autocertificazioni diverse, dopo aver superato infiniti controlli.
Finalmente, dopo venti ore di viaggio, siamo sbarcati a Civitavecchia. E dal porto di Civitavecchia abbiamo preso un autobus per la stazione, e dalla stazione un treno per Roma. Arrivati a Roma Termini, io ero il solo a dover proseguire verso Verona, con l’unico Frecciarossa in partenza la mattina successiva. Ma anche lì, l’ansia non si è fatta attendere: le corse che di ora in ora venivano soppresse superavano di gran lunga quelle ancora in programma. Non potevo fare altro che sperare. Così, dopo aver cercato l’ennesimo hotel che non avesse ancora chiuso i battenti per evitare di trascorrere la notte in stazione, la mattina di martedì 24 marzo, sono riuscito a salire su quel treno. Sono riuscito a salire su un treno per Verona, dopo cinque giorni di travaglio per il viaggio, il freddo, la stanchezza e il rischio di contagio. Sono riuscito a salire su un treno che mi avrebbe finalmente riportato a casa”.
Valentina Farina