Una vita spesa per gli altri Ordinato prete nel 1979, ha iniziato subito a fare il missionario in Etiopia dove è rimasto per trent’anni. Solo qualche rientro a casa “per ricaricare le pile”. Dal gennaio 2022 è direttore di Nigrizia, la storica rivista dei missionari comboniani

Il contatto con la povertà assoluta

“Ero stato segnato dall’esperienza nelle periferie americane, ma lo choc è stato forte”

L’Africa era nel Dna familiare. Perché un cugino di suo padre, Giacomo Cavallini, agricoltore, era stato uno degli aiutanti in Africa di monsignor Daniele Comboni, il fondatore degli istituti per le Missioni dell’Africa e delle Pie Madri della Nigrizia. Così quando il piccolo Giuseppe, finita la terza media a Povegliano, sentì la vocazione a spendere la vita per gli altri, fu al seminario dei Comboniani di Padova che chiese di andare. Ordinato prete nel 1979, padre Giuseppe Cavallini ha iniziato subito a fare il missionario in Etiopia, dove è rimasto per trent’anni. Intervallati da qualche rientro a casa “per ricaricare le pile” e dall’impegno di giornalista a Nigrizia e di direttore del Museo Africano. Dall’1 gennaio 2022 padre Cavallini è il direttore della storica rivista dei missionari Comboniani, fondata nel 1883 e dedicata al continente africano.
Padre Cavallini, che studi ha fatto a Padova?
“Ginnasio e liceo Classico, in tempi di piena rivoluzione giovanile. Eravamo un gruppo ispirato in maniera molto forte all’ideologia: volevamo trasformare il mondo! Dopo il liceo qualcuno di noi aderì alle Brigate Rosse, qualcun altro andò in America latina, a sostenere la guerriglia. Molti di noi pensarono invece a fare una “rivoluzione” all’interno della Chiesa, mettendo in atto lo spirito del Vaticano II. L’idea era di diventare missionari, ma in chiave molto sociologica: credevamo molto nel terzomondismo, come si chiamava a quel tempo”.
Quindi partì subito per l’Etiopia.
“No, prima sono stato quasi quattro anni negli Stati Uniti, a Chicago, a studiare Teologia e a lavorare nelle comunità afroamericane, gli ultimi degli ultimi. Girava droga, violenza, corruzione, prostituzione. Siamo stati i primi a buttarci in questo tipo di presenza di pastorale. Quando sono tornato in Italia, a 26 anni, sono partito per l’Etiopia”.
Dove è rimasto trent’anni.
“Alternandoli con qualche anno in Italia, come giornalista a Nigrizia. In Etiopia ho vissuto in due regioni: vent’anni in Sidamo, a 300 chilometri da Addis Abeba e gli ultimi dieci in Oromia, a 500 chilometri. Ci sarei rimasto ancora, ma nel 2022 avevano bisogno di un nuovo direttore a Nigrizia e ho dovuto fermarmi qui”.
I primi tempi in missione come sono stati?
“Per fortuna il terreno era stato preparato dall’esperienza nelle periferie americane, il mio primo contatto con la povertà assoluta, materiale e morale. Comunque, passare da una metropoli americana come Chicago, alla giungla, è stato uno shock culturale fortissimo. Ma non è stato l’unico. Ero partito con i miei ideali di trasformare la società, con l’ideologia di quando ero ragazzo: là trovai un regime militare marxista-leninista molto radicale, che scompaginò tutta la mia formazione. Mi resi conto che quando la teoria marxista va nelle periferie, degenera: lì c’era il peggio del peggio. Ho dovuto cambiare completamente mentalità”.
Ma eravate accettati dal regime?
“Non ci hanno mai creato problemi, perché sapevano che il lavoro sociale che facevamo era fondamentale: scuole, ospedali, centri di promozione femminile, asili. Ci lasciavano in pace, perché ci consideravano non come religiosi, ma come agenti di promozione sociale. Questo nel primo periodo, prima della rivoluzione degli anni Novanta contro il regime”. rl

Non si è voluto affrontare il problema

L’immigrazione africana verso l’Europa?“Sia a destra che a sinistra sono stati incapaci”

E dal punto di vista ecclesiale?
“Ho fatto il lavoro più bello, perché ho creato un movimento di comunità cristiane, che avevano come finalità imparare ad autogestirsi, non solo a livello di vita cristiana, ma anche a livello di promozione umana. I primi anni sono stati di lavoro pastorale puro: spesso dormivo in tenda, andavo nei villaggi anche a 4 mila metri. Poi mi hanno chiamato a fare il responsabile del Centro catechetico di formazione dei leader della diocesi di Hawassa: in 14 anni ho formato migliaia di leader naturali delle chiese cristiane. Però era un lavoro che si scontrava con l’ideologia politica del partito. Dovevo giocare d’astuzia: davo al governo la sensazione di insegnare solo promozione sociale. In realtà, c’era anche molta preparazione di natura spirituale!”.
Come vede il futuro dell’Africa oggi?
“É un continente con un potenziale enorme. Ha 1 miliardo di abitanti, che diventeranno 2 miliardi e mezzo nel 2050. Ha un’età media di 19 anni, contro la media di 50 del nord del mondo. Mentre noi stiamo invecchiando, l’Africa esplode di vita. E dispone di risorse naturali, che se fossero distribuite lo renderebbero il continente più ricco del mondo”.
E invece?
“Invece, dopo quella del 1800, si è creata una nuova rincorsa all’Africa: cinque potenze, Cina, Russia, Turchia, India e Stati Uniti stanno cercando di penetrarvi. Ai governi africani non chiedono il rispetto della democrazia, sono interessati solo agli affari: per questo vengono accolti a braccia aperte. Un esempio di come agisce la Cina? Nel 2011 ha ricostruito gratuitamente la nuova ferrovia Addis Abeba-Gibuti. In cambio ha avuto per 99 anni 200 mila ettari di terra, che ha coltivato a riso. Per i cinesi, non per gli africani”.
Perché negli ultimi anni è aumentata l’immigrazione verso l’Europa?
“Sono molti i motivi. Prima di tutto c’è una popolazione giovanissima, molto spesso istruita fino alla laurea, soprattutto nel sud Sahara, che è alla ricerca di sbocchi di vita. Questi sono i migranti economici. A loro sono legati i migranti politici, in fuga da zone di guerra: nella fascia a sud del Sahara, in tre anni ci sono stati otto colpi di stato che hanno riportato i militari al potere. Poi ci sono anche i ragazzi che arrivano perché attratti da quello che vedono in tv e sui social: ogni sorta di benessere a portata di mano”.
La politica, in questi anni, ha saputo affrontare il problema?
“Sono stati incapaci, sia a sinistra che a destra, di affrontarlo. A Nigrizia, già nei primi anni Novanta, scrivevamo che nei giovani africani si stava sviluppando il mito dell’occidente. In tanti ci venivano a chiedere aiuto per andare in Italia. Erano segnali chiari di quello che sarebbe successo. Ma chi ci governava, non ha mai voluto affrontare il problema, finchè è scappato di mano”. rl

Il piano Mattei? Una scatola vuota

“Abbiamo voluto dettare noi l’agenda su come farlo senza coinvolgere i paesi africani

Cosa si dovrebbe fare per una vera integrazione?
“Imparare dalla Germania. Che per inserire i Turchi nel contesto sociale, per prima cosa ha creato le scuole. Perché chi emigra deve imparare subito la lingua e la cultura del posto. Se lasciamo i giovani africani in giro per le strade, cosa imparano? A bighellonare e a rubacchiare. Se manca una vera politica per inserire realmente questi ragazzi nella società, finisce così”.
Parliamo del piano Mattei: 5 miliardi e mezzo destinati all’Africa.
“Per chi conosce bene la realtà dell’Africa, anche il piano Mattei è una sorta di scatola vuota. Perché la priorità del piano non è la crescita del continente. La priorità è garantirci, in futuro, i rifornimenti di energia. E il blocco delle migrazioni. Quindi non c’è nulla di nuovo: è sempre stata questa la politica portata avanti dall’Italia e dall’Europa”.
Quindi lei non crede che possa portare vantaggi all’Africa?
“Il limite più grande del piano Mattei è che abbiamo voluto dettare noi l’agenda su come farlo, senza coinvolgere l’Europa e senza coinvolgere i paesi africani. Come ha fatto notare alla premier Meloni, al vertice Italia-Africa, il presidente della Commissione dell’Unione africana Moussa Faki. Il fatto di non aver considerato i paesi africani partner su base egualitaria, rende il piano Mattei un’operazione di stampo neocoloniale. Si vuole aiutare, ma lo si fa con lo stesso atteggiamento paternalista con cui ci siamo sempre rivolti all’Africa. E poi c’è un secondo grande limite”.
Che sarebbe?
“Che non c’è nulla di chiaro sulle modalità di spesa dei fondi stanziati. Che non sono 5 miliardi ma 2 e mezzo, finora. E sottratti ai programmi della cooperazione internazionale. Certo, ci sarà qualche infrastruttura, fatta qui e là. Ma l’Africa non è l’Italia: 2 miliardi in Africa non sono niente. Fai tre ospedali e li hai già spesi tutti”.

Rossella Lazzarini