Non gliela perdonarono quella stretta di mano a Yasser Arafat. E Yitzhak Rabin la pagò con la vita. In troppi, non l’avevano digerita. Immortalata il 13 settembre del 1993 a Washington nel giardino della Casa Bianca davanti al presidente Clinton in una foto che fece la storia, quella sofferta stretta di mano tra Rabin e Arafat fu il frutto di un percorso conclusosi dopo otto mesi di dialogo tra sordi a Oslo. Una stretta di mano che valse ai protagonisti di quel faticoso negoziato, Yitzhak Rabin, Shimon Peres e Yasser Arafat, il Premio Nobel per la Pace. Fu un passo nella storia: mai i due nemici Israele e Palestina erano arrivati a tanto. Ciò che pareva impossibile divenne possibile, e si riconobbero l’un l’altro. Israele, che s’impegnò nei cinque anni successivi a ritirare le truppe dai territori occupati, riconobbe all’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, il diritto di governare sui territori occupati in Cisgiordania e Striscia di Gaza attraverso la nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese. Fino al raggiungimento di un accordo definitivo, i territori sarebbero stati divisi in tre aree: Zona A in pieno controllo palestinese, Zona B a controllo civile palestinese e sicurezza demandata a Israele; Zona C in pieno controllo israeliano, tranne che sui civili palestinesi. Oltre a riconoscerne il diritto all’esistenza, l’OLP avrebbe anche rinunciato a qualsiasi atto di terrorismo nei confronti di Israele. Com’era prevedibile, l’accordo suscitò aspre reazioni da ambo le parti: prevalsero ostilità, sospetti e diffidenze.
I palestinesi sognavano un loro Stato indipendente fondato sul principio di autodeterminazione, ipotesi sempre rigettata dalla controparte; prova se ne ebbe alla Knesset quando subito dopo la firma degli accordi, il governo Rabin ottenne la fiducia per una manciata di voi.
A complicare le cose, fu la strage di Hebron del febbraio del 1994, quando un colono israeliano massacrò 19 palestinesi. Alla reazione di quest’ultimi l’esercito israeliano rispose con un’aspra repressione. In un clima simile, l’accordo divenne ogni giorno più debole. Yitzhak Rabin era un militare che si era contraddistinto nella prima guerra arabo-israeliana del 1948 e nella guerra dei Sei Giorni del 1967. Lasciato l’esercito, intraprese la carriera politica: già ambasciatore negli Usa, entrò alla Knesset tra le fila del Partito Laburista nel 1974, l’anno successivo sconfisse Shimon Peres alla guida del partito e divenne primo ministro succedendo a Golda Meir. Rimase in carica fino all’aprile 1977 quando fu costretto alle dimissioni per la faccenda di un conto corrente della moglie Lea in Usa. Ministro della Difesa dal pugno deciso nel 1984 in un governo di unità nazionale, una volta tornato in sella al Partito Laburista, vinse le elezioni del 1992 e divenne nuovamente primo ministro.
Al suo fianco, agli Esteri, volle Shimon Peres, col quale aveva ormai appianato ogni divergenza.
La sera del 4 novembre del 1995, Rabin tenne un comizio a Tel Aviv: dalla folla spuntò, Ygal Amir, un giovane colono estremista che gli sparò due colpi di pistola. L’assassino fu catturato e condannato all’ergastolo. Ai funerali di Rabin parteciparono un milione di israeliani commossi. Da allora il processo di pace è interrotto. E venticinque anni dopo, appare sempre più lontano.
Elle Effe