Ingeborg Bachmann, figura tormentata di apolide per scelta e per necessità poetica, cerca disperatamente per tutta la vita una casa di cui possa essere, come scrive, quella che in altri tempi sarebbe stata la castellana. L’attrazione, così mitteleuropea, per il Mediterraneo, è controbilanciata, in un certo senso, dal periodo di malattia e di crisi che trascorre a Berlino fra il 1963 e il 1965, prima in clinica, per curarsi dopo la dolorosa fine della storia d’amore con lo scrittore Max Frisch, poi all’Akademie der Künste, infine nella Königsallee. Un’agonia sovvenzionata (da una borsa della Ford Foundation); eppure, nei fatti, si tratta di un momento estremamente fecondo. Poeticamente: nella città, che racconta come luogo naturale “delle coincidenze”, affonda non solo la sua radicale riflessione sulla malattia, ma anche il progetto grandioso della sua personale Recherche, ovvero il ciclo incompiuto delle Todesarte. L’autrice in questo affasciante percorso filosofico e non solo, si sdoppia, anzi si fa in tre, come la psiche della teoria freudiana, incarnando un intero triangolo di amore e distruzione.