C’è un luogo nella nostra città che, per tradizione e per caratteristiche dello spazio espositivo, rappresenta un vero e proprio emblema dell’arte. Da oltre cinquant’anni lo custodisce la gallerista Hélène de Franchis nel suo “Studio la Città”, in Lungadige Galtarossa, promuovendo artisti del calibro di Lucio Fontana, Mario Schifano, Michelangelo Pistoletto, Piero Dorazio affiancati da personalità italiane e straniere agli esordi o già affermate. La galleria, ospitata in un vecchio capannone industriale riconvertito (costruito negli anni Trenta con alti soffitti e grandi stanze), invita a una vera e propria immersione in molteplici universi percettivi. Il calendario di proposte è variegato in ogni momento dell’anno e, solo per fare alcuni esempi recenti, passa dalla partecipazione a “Contemporaneo non-stop. Il respiro della natura/Aria” (con le opere dell’artista americana Tracey Snelling esposte alla Galleria d’Arte Moderna di Verona), alla collettiva “La storia non si ripete ma fa rima” (creata in collaborazione con Boccanera Gallery), passando dalla personale di Jacob Hashimoto “Noise” per raggiungere l’esposizione di Massimiliano Gatti “Firaq… nostalgia”. É proprio su quest’ultima mostra, da poco conclusa, che soffermiamo il nostro sguardo. Il progetto creativo, accompagnato dai testi di Cesare Pomarici, offre un possibile punto di vista sul tema della migrazione e si focalizza sul racconto di chi, per ricercare una vita migliore, abbandona ogni certezza: la famiglia, le relazioni, la terra natia, la dimensione sociale e culturale. Il titolo “Firaq” esprime il concetto di “separazione” e paragona il viaggio delle persone migranti all’Odissea di Ulisse.
Il percorso espositivo propone piante forzatamente strappate dalle radici e suggerisce, da un lato, la necessità di sradicarsi per far fronte al desiderio di vivere meglio e, dall’altro, una conseguente nostalgia di un passato perduto. La ricerca di Massimiliano Gatti (laureato in farmacia e diplomato in fotografia alla scuola milanese Baurer) riporta spesso ai temi dell’attaccamento alla “terra di origine” ritenuto fulcro irrinunciabile per la formazione e per la crescita di ogni essere umano. Nel ciclo di opere intitolato “Anche tu sei collina” ispirato alla poesia di Cesare Pavese, per fare un esempio, un frammento di vecchio palo di castagno “instancabilmente immerso nella terra, arsa d’estate e fradicia d’inverno” sorregge il filare della vite e consente alla pianta di crescere e germogliare ogni anno. Invece, in “Tracce di viaggio”, i percorsi verso la destinazione finale della migrazione si disegnano con colorati neon (affiancati da mappe geografiche) oppure con stampe rotte e poi ricucite per evidenziare i momenti più pericolosi di un viaggio lungo e ormai segnato sulla pelle di chi è costretto a viverlo. Le opere di Gatti, indagando sulle tante realtà che raffigurano, propongono singolari suggestioni su complesse questioni storiche, sociali e politiche. Ne escono simboli e metafore che, nella loro semplicità solo apparente, introducono immagini dense di significati e stratificate visioni di tanti, possibili viaggi. Le enigmatiche cicatrici dell’artista narrano visivamente l’odissea del quotidiano ma sono anche espressione di una fiducia mai sopita quando riportano nell’opera, nel punto della simbolica ferita, alcune tracce d’oro per indicare che i tanti traumi delle separazioni “possono essere illuminati dalla speranza di trovare una terra dove affondare nuovamente le proprie radici e crescere”.