Per la cura e la fiducia del paziente
Anni in lista d’attesa per un intervento, ma prescrivere di meno non giova al sistema
Vicentino di nascita ma veronese doc ormai da molti anni, il dottor Giulio Rigon dal 2021 è il segretario provinciale del più importante sindacato nazionale dei medici di base, la Fimmg: 380 iscritti a Verona, circa 1200 nel Veneto. Laurea all’Università di Verona nel 2002, il dottor Rigon ha deciso fin da studente che avrebbe fatto il medico di famiglia. Professione che esercita nella struttura di medicina di gruppo integrata Casa di Salute di via Bramante, in Borgo Milano: 14 medici, due infermiere, tre segretarie. Esempio virtuoso di come dovrebbe funzionare la medicina del territorio. Nonchè esempio unico in Verona città.
Dottor Rigon, i medici di base sono dipendenti Ulss o liberi professionisti?
“Liberi professionisti, convenzionati con il Sistema sanitario nazionale. Una posizione per cui ci battiamo con forte convinzione. Da qualche tempo infatti una parte della classe politica, sia regionale che nazionale, ha individuato nella dipendenza dall’Ulss dei medici di base la possibile soluzione ai problemi della sanità pubblica. Un errore: primo perché in un momento di carenza di medici, la soluzione non comporterebbe nessun miglioramento; secondo perché il fatto di essere convenzionati, e non dipendenti, permette ai medici di base di essere totalmente a favore dei pazienti. E il rapporto fiduciario con il paziente è il fondamento del nostro lavoro”.
Com’è cambiato il vostro lavoro dopo il Covid?
“Si è fatto ancora più difficile. Durante il Covid, quando non potevamo ricevere i pazienti, abbiamo usato canali di comunicazione alternativi, come le email o whatsapp. Oggi molti colleghi sono ancora sommersi di messaggi e richieste online, che appesantiscono il lavoro e rendono più difficile gestire il flusso di pazienti in ambulatorio. Tutti vogliono risposte immediate su tutto, anche nei casi più complessi che richiedono una riflessione, per poter dare la risposta corretta”.
C’è polemica sull’appropriatezza delle prescrizioni dei medici di base, che secondo alcuni sarebbero la causa principale delle lunghe liste d’attesa. Vero o falso?
“Come capita nelle situazioni complesse, non ci sono risposte univoche. Da un lato è vero che può esserci un miglioramento da parte dei medici di medicina generale. Dall’altro c’è una prescrizione che non viene misurata, ed è quella degli specialisti privati. Noi medici di medicina generale non mandiamo i pazienti a fare esami che non hanno bisogno di fare. Ma se arriva il paziente anziano che si deve operare di cataratta, gli faccio la prescrizione, anche se a Verona la lista d’attesa per l’intervento è di un anno e mezzo”.
L’Ulss di Belluno ha siglato un accordo con i vostri sindacati: più soldi a medici di base se prescrivono meno esami e visite urgenti. É la strada giusta per diminuire le liste d’attesa?
“Non credo. In sanità guardiamo all’economia, o guardiamo alla salute delle persone? Se a un paziente serve un esame subito, non devo prescriverlo? Certo è stato giusto, in questi ultimi anni, arrivare a risparmi nel sistema sanitario pubblico, là dove c’erano eccessi. Ma essere incentivati per non prescrivere, mi pare una scelta che alla fine non giova al sistema”.
C’è ancora carenza di medici di base nella nostra Ulss?
“Si, anche se è stato permesso alle Regioni di prolungare l’attività dei medici di base, che a loro scelta possono decidere di andare in pensione a 72 anni, anziché 70. Ma visti i ritmi di lavoro, solo il 10 per cento decide di prolungare. La carenza di medici rimane forte anche nella nostra Ulss: solo nel distretto 1 servono 27 medici. Ne entreranno a breve circa una decina, quindi resteranno zone scoperte”.
L’ultima riforma sanitaria è del 1978
La sanità pubblica è in ginocchio. I politici tolgono e basta, quando manca personale
I giovani laureati in medicina sono orientati a fare il medico di base?
“Per alcuni anni c’è stata una diminuzione delle richieste, ma da un po’ di tempo a questa parte c’è molto più interesse. Con l’Università di Verona stiamo lavorando molto bene per far conoscere la medicina generale agli studenti del sesto anno. Il nostro lavoro, almeno a Verona, sta tornando ad essere attrattivo per una buona quota di giovani colleghi. Direi soprattutto donne, che sono diventate maggioranza anche fra gli iscritti a medicina”.
La medicina oggi è iper-specializzata, ma così si perde una visione di insieme del paziente.
“Che è rimasta solo a noi medici di base, che ci occupiamo di ricucire insieme tutti i vari pezzi iper-specialistici intorno alla persona e al suo stato familiare. L’iper-specializzazione va bene fino a un certo punto, e solo nei casi in cui c’è realmente bisogno dello specialista. Ma la maggior parte dei nostri pazienti sono persone anziane, magari ferme a casa, a letto e con decadimento cognitivo. Lì a che serve lo specialista? C’è bisogno di rafforzare la rete sociale! In Italia l’età media è aumentata a 84 anni per le donne e 80,7 per gli uomini, ma la qualità della vita resta più bassa della media europea”.
Quindi cosa serve per migliorare la medicina sul territorio?
“In questo momento serve personale. I medici di medicina generale da soli non ce la fanno più. Anche nelle realtà più piccole, devono essere inseriti in una struttura che li supporti. Oggi servono un medico, un’infermiera, una segretaria: è il nucleo minimo su cui si può costruire un servizio in grado di affrontare al meglio tutte le problematiche”.
Vi sentite ridotti a soli burocrati?
“C’è tanta burocrazia, è vero. Ma quando dico che non dobbiamo essere da soli, intendo proprio questo. Se il medico di base può contare su uno staff anche minimo, può dedicare più tempo a visitare i pazienti. É logico che se posso affidare a un collaboratore la parte burocratica, aumenta il mio profilo professionale. Perché controllare un modulo compilato richiede pochi secondi, ma compilare di persona moduli su moduli, toglie tempo alla professione vera”.
Molti vedono la sanità pubblica come un malato in condizioni critiche. Secondo lei?
“Usando il suo parallelismo: lo è, se la politica decide di spegnere le macchine! La sanità pubblica non è destinata a scomparire, ma se i finanziamenti si riducono sempre di più… L’Italia dedica al sistema sanitario il 6 per cento del Pil, contro il 12 di Francia e Germania. L’ultima riforma sanitaria italiana, all’avanguardia per l’epoca, è stata fatta nel 1978. Sono passati quasi 50 anni: forse un’altra riforma, fatta bene, ci vorrebbe”.
Andrebbe fatta a livello politico nazionale.
“Certo, e cercando una concertazione. Anche se mi pare che le scelte politiche degli ultimi anni puntino a creare sistemi sanitari regionali. Che possono anche andare bene, ma quando c’è l’emergenza, e con il Covid l’abbiamo visto, le Regioni hanno bisogno di una guida. Su una questione delicata come quella sanitaria, l’autonomia va bene fino a un certo punto. Quindi, se non si ha il coraggio politico di affrontare una riforma seria, mettendo intorno a un tavolo Ministero della Salute e Regioni, la vedo dura che si possano fare grandi passi avanti. Il sistema pubblico così non regge più, va modificato”.
Rossella Lazzarini