I Thing Mote si formano Verona nel 2006. A comporre il gruppo sono Tommaso Zanardi e Giuliano Fasoli (voci e chitarre), Fabio Dai Prè (batteria) e Pietro Donnarumma (basso). Nel 2010 pubblicano la loro prima fatica discografica, “Mote EP”. Il 2011 vede invece uscire un secondo EP, “Scratches from the Ground Above”. Entrambi gli album sono autoprodotti. Due anni dopo arriva “Stabstrings a Genuine Acoustic EP”, un lavoro completamente acustico. Ad esso seguono l’EP “Alive in the Sky with No Reason” (2014) e, nel 2020, il primo LP, “Robokiller”. Com’è stato pubblicare il vostro primo full album in piena emergenza Covid? “È stato molto brutto. Abbiamo scelto di farlo uscire comunque perché la lavorazione si era trascinata. Quindi, abbiamo valutato che era meglio farlo uscire, altrimenti l’avremmo pubblicato tipo un anno e mezzo o due dopo, aspettando di poter fare eventuali concerti. Manca ancora, in realtà, una presentazione live ufficiale. Ci stiamo lavorando. Non è semplice trovare date per il genere che facciamo. Poi, una delle conseguenze del Covid è che molti locali hanno chiuso o fanno fatica e quindi magari scelgono nomi un po’ più grossi”. Quali sono le vostre influenze? “Abbiamo tutti influenze musicali diverse e veniamo da generi vari. Inoltre, è da tanti anni che ci conosciamo e suoniamo assieme e i nostri gusti sono cambiati, si sono diversificati. Il prodotto che riusciamo a tirare fuori è veramente molto particolare. Magari come gruppo abbiamo iniziato con qualche influenza comune. Potevano essere i Muse, gli Oasis. Poi ognuno ha portato il proprio stile, orecchio. Di sicuro ci sono sonorità anni ‘90, il grunge è certamente un punto comune. Se dovessimo fare dei nomi: Nirvana, Queens of the Stone Age e Radiohead”. Qual è la vostra canzone che più vi rappresenta? “Una è ‘Wasteland’. È nata proprio da tutti e 4, tramite un modo che abbiamo di scrivere le canzoni: trovarci in sala prove per delle jam session. Uno parte con un riff e da lì si costruisce tutto. Questa canzone dopo tanti anni è giunta finalmente a una fine, anzi a un inizio degno, visto che l’abbiamo inclusa nell’album. Un’altra può essere anche ‘Machines are coming’. È un brano vecchissimo che abbiamo reinterpretato più volte. A livello di sonorità è quello che si incastra di più col resto delle canzoni. È come un marchio di fabbrica”. Come componente di solito? “Il processo è un po’ disparato. Per alcune canzoni si parte dall’idea di un singolo: una traccia di chitarra, di basso, di batteria o tutte assieme. Una linea guida che poi viene rielaborata in sala prove da tutti. In altri casi, invece, come con ‘Wasteland’, partiamo da improvvisazioni in sala prove. In altri casi o arriva il singolo già con una traccia e un altro con il testo. Comunque, tutti collaborano. Ad esempio, anche Fabio, il batterista, è autore del canovaccio iniziale di ‘Awake’ a livello strumentale, cioè di tutti gli strumenti”. Invece dove trovate l’ispirazione? “È difficile perché la risposta spesso è banale. Può essere molto banale dire la vita, no? Comunque, nei testi di ‘Robokiller’ sono state d’ispirazione serie televisive come ‘Black Mirror’ oppure anche film, la filosofia e l’arte. Poi qualche volta guardiamo anche a fatti storici, politica e sociologia”.
Giorgia Silvestri