Capita di non ricordarsi che cosa abbiamo mangiato a cena, che film abbiamo visto l’altra sera su Netflix, come eravamo vestiti al matrimonio di quella coppia di amici, ma chiunque abbia oggi più di 30 anni ricorda esattamente dove era l’11 settembre 2001. Ricorda cosa stava facendo e con chi era quando le televisioni cominciarono a dare la notizia del primo schianto contro la Torre Nord del World Trade Center.
Nell’arco di un’ora e quarantadue minuti entrambe le torri del World Trade Centre crollarono su se stesse, in un ammasso di detriti, cenere e fuoco che causò poi il crollo parziale o totale di tutti gli altri edifici del complesso. Un terzo aereo fu fatto schiantare contro il Pentagono, e un quarto velivolo diretto a Washington, probabilmente per colpire la Casa Bianca, precipitò in Pennsylvania, a seguito di una rivolta eroica dei passeggeri. Siamo stati tutti lì, anche se non c’eravamo.
In mezzo a quel caos, in mezzo alla riproduzione e alla ripetizione di immagini delle torri che collassano, delle sirene dei vigili del fuoco, dei feriti, c’è un fotogramma che si fa silenzio e che tutto mette a tacere.
La sagoma di un uomo, a testa in giù, le braccia allineate alle linee verticali dell’edificio e una gamba piegata all’altezza del ginocchio.
Indossa una camicia bianca e dei pantaloni scuri e sembra quasi composto, mentre precipita dalla Torre Nord, dalla quale deve essersi appena gettato per fuggire al fumo e al fuoco. “The falling man”, l’uomo che cade, è forse l’immagine più potente di quelle ore.
Una foto scattata per caso da un fotografo dell’Associated Press, Richard Drew, che avrebbe dovuto fare un servizio su una sfilata di abiti premaman e che si ritrovò invece ad
immortalare gli attimi di una catastrofe. L’immagine scatenò critiche accese nell’opinione pubblica statunitense, che accusò l’autore di aver catturato in un fermo immagine, una morte imminente, un quasi suicidio e di essere per questo indiscreta, inopportuna. Come tutte le cose che fanno male e che vanno dritte al punto in cui devono arrivare. Fu
addirittura oggetto di censura ed elusa dai media, come accadde poi anche ad altre foto analoghe. Il New York Times tornò a parlare di questi “salti nel vuoto” solo nel 2004 e la
foto non venne più pubblicata fino al 2007. L’identità dell’uomo in “The Falling Man” non è mai stata confermata.
Ci sono tragedie che fanno da spartiacque, che definiscono la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra. Una data diventa sinonimo di quanto accaduto. La parte per il tutto. Capita che di eventi così, non solo dell’11 settembre 2001, si parli e si tenda a cogliere la portata collettiva, lo stravolgimento in termini di assetto politico internazionale, di cambiamenti globali. Capita di dimenticarsi che in mezzo a tutto questo, alla cenere e ai detriti, alle lamiere e ai vetri frantumati, alle torri che collassavano, alle voci che gridavano, c’erano solo persone. Ma basta poi una fotografia, lo sguardo di un uomo che con la sua camera si posa su un altro uomo, a restituirci la dimensione individuale che si cela dietro ogni tragedia collettiva.
Giulia Tomelleri