«…Voi, che vivete tranquilli nella vostra coscienza di uomini giusti, che sfruttate la vita per i vostri sporchi giochetti allora, allora ammazzateci tutti!».
Con queste parole Antonelli Venditti parla del disastro di Seveso nel suo singolo Canzone per Seveso, pubblicato nell’ottobre del 1976. Proprio nello stesso anno infatti, il 10 luglio, dall’azienda ICMESA di Meda si disperse una nube della diossina TCDD, una sostanza chimica fra le più tossiche. L’aria inquinata investì i territori limitrofi della bassa Brianza, in particolare quello di Seveso. Le conseguenze di questo disastro ambientale hanno spinto gli Stati dell’Unione europea a creare una direttiva comune da seguire in materia di prevenzione dei grandi rischi industriali.
Ma perché l’evento ha avuto tutta questa risonanza? È stato il primo caso di fuoriuscita della diossina da una fabbrica con ricadute sull’ambiente circostante. Inoltre le conoscenze sulla diossina nel mondo erano quasi nulle, perché prima non era mai stato possibile esaminare gli effetti della TCDD sull’uomo.
Secondo una classifica del 2010 della testata Time, l’incidente è all’ottavo posto tra i peggiori disastri ambientali della storia. Ripercorriamo ora cosa successe nello specifico quel giorno che rimase nella storia. Verso le 12:28 il sistema di controllo di un reattore chimico che produceva diversi diserbanti andò in avaria e la temperatura salì oltre i limiti previsti. La causa probabilmente fu l’arresto volontario della lavorazione senza che ci fossero i presupposti per farlo in sicurezza.
Non ci furono esplosioni, ma l’alta temperatura raggiunta aveva causato la formazione di diossina, che venne trasportata dal vento. Il primo allarme nei cittadini si manifestò con odore pungente e infiammazioni agli occhi. Solo dopo sette giorni la notizia venne data dai giornali. Il territorio di Seveso, il più vicino alla fabbrica, fu suddiviso in tre zone di contaminazione sulla base delle concentrazioni di TCDD nel suolo. Non vi furono morti, ma 676 sfollati, dei quali alcuni poterono tornare nelle abitazioni mesi dopo, mentre altri furono costretti a trasferirsi.
Elevato il “rischio tumori” La paura abita ancora qui
Nella zona con più alto tasso di contaminazione, fu risanato il terreno ed effettuato un rimboschimento: oggi la testimonianza di questo è il Parco naturale Bosco delle Querce.
Ma di chi è stata la colpa? Fu aperto un processo giudiziario avviato dalla Procura della Repubblica di Monza, che vedeva la regione Lombardia incriminare l’ICMESA. Solo nel 1980 si raggiunse un accordo con il presidente del Consiglio d’amministrazione della Givaudan, per far sì che la società pagasse i danni. I risultati, un rimborso di 7 miliardi e mezzo allo Stato italiano e 40 miliardi e mezzo alla Regione Lombardia per le spese di bonifica. Inoltre, 47 miliardi per i programmi di bonifica e 23 miliardi destinati alla sperimentazione.
Fu deciso poi di costituire una Fondazione per ricerche ecologiche, oggi Fondazione Lombardia per l’Ambiente. Nonostante gli accordi presi, i dipendenti collegati al disastro furono tutti processati e in gran parte condannati a 5 anni di reclusione, al contrario del dirigente della Givaudan e della ditta svizzera proprietaria.
In ogni caso, i privati vennero risarciti dalla multinazionale. Ma gli strascichi dell’inquinamento non se ne sono andati del tutto. Delle ricerche infatti dimostrano come, a vent’anni di distanza, ci siano state conseguenze sulla popolazione femminile esposta alla diossina. Lo studio dice che le madri che abitano in quella che era stata zona rossa, hanno 6 volte in più il rischio di far nascere figli con difetti fisici e intellettuali.
Nonostante all’epoca del disastro in Italia l’aborto fosse vietato, vista la situazione furono autorizzati aborti terapeutici. La questione però scatenò un acceso dibattito. Non è chiaro se il disastro di Seveso possa aver causato tumori. Resta questa, comunque, una delle pagine più nere a livello ambientale. B.C.
Beatrice Castioni