Che ci fosse del genio in Battisti, lo capii subito, quando appena “cinquenne” ne ascoltavo i brani sul sedile posteriore dell’auto, scarmigliati i capelli a causa del vento, non perché la macchina fosse decappottabile, ma perché allora l’aria condizionata era un optional, un privilegio di pochi e d’estate si viaggiava rigorosamente con i finestrini abbassati. Erano per me anni di grandi riflessioni e domande alle quali tendevo a rispondere da sola, con esiti talvolta controversi. Ad ogni modo dicevo, che ci fosse del genio in Battisti, già l’avevo capito allora cantando a squarciagola “motocicletta-a, riesci a capi’”. Insomma uno che non si faceva problemi a trascinare nel cantato i regionalismi del parlato, doveva per forza avere dalla sua una forza dirompente. Solo molti anni più tardi, di fronte all’evidenza del testo scritto, realizzai che la canzone diceva “Motocicletta, 10 HP”, ma a quel punto la convinzione del genio battistiano si era consolidata grazie a motivazioni più fondate.
Ci sono canzoni che inspiegabilmente rimangono incastonate nella memoria collettiva, senza che nessuno si sia preso la briga di studiarle. Uno parte a dire “ seduto in quel caffè” e il dirimpettaio – specialmente in tempi di Covid – non può fare a meno di rispondergli “io non pensavo a te”. E’ una magia o una maledizione – riesci a capi’? – ma succede quando qualcuno riesce a creare delle armonie e delle concatenazioni di parole che si cristallizzano nel tempo. E così se uno continua dicendoti “Guardavo il mondo che” ti tocca rispondergli “Girava intorno a me”. E un po’ ti girano pure, vorresti essere originale ma non ce la fai, è più forte di te. Provateci voi a cambiare la sequenza. Non è possibile. Se lo fate, se cambiate la successione, da qualche parte nel mondo si spegne un falò. Sono brani che tutti – tutti anche tu che laggiù scuoti la testa, “non dire no” – sappiamo a memoria. Ce li distribuiscono come bagaglio culturale d’italianità, lì nel mezzo, tra un infinito leopardiano e la formazione dell’Italia campione del mondo dell’82. Così è per “29 settembre” terzo brano della coppia Mogol/Battisti, portato alla ribalta dall’Equipe 84 e poi – poco dopo – ripreso da Lucio nell’album del suo debutto.
Mogol ci può spiegare che 29 settembre è la data di nascita della prima moglie, Serenella, e che è una canzone che parla del tradimento di una notte. Ci può dire che è stata scritta nel ‘67, in pausa pranzo (pensate quante cose si possono fare in pausa pranzo) e che rappresenta il loro primo vero successo. Ma in fondo ci importa poco di qualsiasi esegesi critica, perché ognuno di noi nel frattempo, che è il tempo in cui viviamo, l’ha già canticchiata centinaia di volte attribuendole il senso che per noi aveva in un dato momento e poi un altro senso ancora, identificandoci alternativamente nel ruolo di quella lei presa sottobraccio, e poi dell’altra, quella di cui l’io narrante è veramente innamorato, o ancora immedesimandoci nell’io che canta la confusione di chi ha frainteso “un lampo con la luce, l’incontro di una sera a confronto con il bene profondo di anni”. Perché questo fanno le canzoni che restano. Si prestano a illimitate riletture, in base al vissuto di chi le ascolta o agli anni che ci sentiamo addosso, alla giornata che abbiamo trascorso o all’andamento delle nostre storie d’amore, raccontandoci l’universale partendo dal particolare.
C’è un prima e un dopo Battisti nella musica italiana. E uno può pure dire che non gli piace, giurare su quanto ha di più caro, di non aver mai cantato una sua canzone, ma di sicuro non lo può ignorare. Perché Battisti è stato al tempo stesso il cantante delle canzoni da falò e l’innovatore mai pago. Uno che si è circondato di musicisti stratosferici (la PFM per buona parte della sua carriera), ma che le sue canzoni le canti anche con un filo di voce e una chitarra. Uno che riusciva ad essere ugualmente credibile cantando “acqua azzurra” e “il tempo di morire” o “insieme a te sto bene” trascinandoci tutti a nostra insaputa – anche tu laggiù che scuoti la testa, “non dire no”– nei territori dell’hard rock o addirittura dell’elettronica, in periodi in cui la tecnologia non poteva fare ciò che può adesso.
E ha fatto tutto questo cantandoci – con una voce rarefatta, una vocalità così poco ortodossa per il tempo e così piena di tinte blues – di sentimenti privati, dell’amore soprattutto, in un’epoca storica in cui non mostrarsi schierato politicamente significava essere bollato come cantante non impegnato. Pensateci. Non c’è cosa che vi possa accadere, per la quale non esista una canzone – famosa (questo fa la differenza) – di Battisti da associare. E se la maggior parte dei cantanti è ricordata per un pugno di brani, Battisti viaggia con tutta la sua discografia, pacchetto completo. Come si fa a sceglierne una? E’ come chiedere a un bambino se preferisce la mamma o il papà. Semplicemente non si fa.
Possiamo parlare di tutto cantando Battisti, domandarci perché “quando cade la tristezza in fondo al cuore, come la neve non fa rumore” o “guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere, se poi è tanto difficile morire”. Possiamo non esser stati divertenti e pensare a qualcuno, o “ non farci vivi e non telefonare, parlar di tutto per non parlar d’amore”. Possiamo canticchiare “lo scopriremo solo vivendo” a chi fa troppe domande o più semplicemente possiamo, svegliandoci con i postumi di una sbronza, intonare “Che anno è, che giorno è…”
“Può darsi che io non sappia cosa dico” ma a pensarci “bene, prendendo a prestito le parole di quell’altro Lucio, che oltre al nome e al successo canoro, condivide con lui quasi la data di nascita (4 e 5 marzo del 1943), si potrebbe asserire che Battisti abbia scritto una canzone per ogni pentimento. E anche, aggiungo, per ogni sentimento. Di sicuro per l’amore, in tutte le sue sfaccettature, il repertorio è vasto e ineguagliato, con buona pace di tutta la nuova scena musicale italiana.
È vero, “non possiamo farne un dramma”, ma come non pensare a Battisti e non avere nostalgia del suo genio, della sua capacità di reinventarsi? Con la sua produzione artistica è riuscito a traghettare la musica “leggera” italiana verso la modernità e la molteplicità dei linguaggi musicali, mostrandoci al tempo stesso quello che Simone de Beauvoir avrebbe detto di una donna , “un cantante libero è il contrario di un cantante leggero”. D’altro canto, diceva Lucio “un artista non può camminare dietro il suo pubblico, un artista deve camminare davanti” . Eh già, ma tu, tu laggiù in fondo, riesci a capi’?
Giulia Tomelleri