«La bomba è fatta scoppiare: un centinaio di persone muoiono, i loro cadaveri restano sparsi e ammucchiati
in un mare di sangue, che inonda, tra brandelli di carne, banchine e binari».
Con queste parole, Pier Paolo Pasolini profetizzava nel suo romanzo postumo Petrolio con 8 anni di anticipo quello che sarebbe stato il più sanguonoso atto terroristico del secondo dopoguerra italiano: la Strage di Bologna.
Il 2 agosto del 1980 alle 10.25 del mattino ed in pieno esodo estivo, Bologna viene scossa da un boato assordante che fa tremare l’intera città. Nella sala d’aspetto della seconda classe della stazione, una bomba a
tempo messa in una valigia abbandonata su un tavolino viene fatta detonare a distanza, facendo crollare l’intera ala ovest della Stazione Centrale ed investendo in pieno il treno Ancona-Chiasso in sosta al binario 1. 25 chili di esplosivo plastico T4, 5 di tritolo e 18 di nitroglicerina, 85 morti e oltre 200 tra feriti e mutilati. Sono questi i numeri che dopo 40 anni ancora non si possono dimenticare.
La pista è subito chiara, o quasi. Tolti i primi e voluti depistaggi dove si faceva risalire il tutto all’esplosione fortuita di una caldaia dei sotterranei della stazione, le indagini si concentrano subito sui NAR (nuclei armati rivoluzionari), gruppo terroristico di estrema destra.
Esecutori materiali, secondo la sentenza definitiva della Cassazione del novembre 1995, i neofascisti Francesca Mambro, il compagno Valerio Fioravanti, Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini poi.
Colpire al cuore Bologna la Rossa quindi, e nel suo momento più sensibile, quello che vedeva la Stazione Centrale come snodo e punto di passaggio obbligatorio per le vacanze di tutti gli italiani, che negli anni 80 prendevano d’assalto le assolate coste della Romagna.
Si viveva così durante gli anni di piombo, da quando nel 1969 si diede il via a quella che viene ricordata come la “Strategia della tensione” con l’esplosione di una bomba all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano, luogo della strage di Piazza Fontana. Inizio e fine. Da Milano a Bologna. 1969-1980.
Il ruolo del “venerabile” Licio Gelli
Se a 40 anni di distanza da quel boato sappiamo chi ha materialmente lavorato dietro questa strage, quello che non è mai stato scoperto è chi sia stato il mandante, l’ideatore, la mente dietro una delle più grosse stragi italiane.
Se non si trattasse della realtà ma di un romanzo giallo, il capitolo in cui si scopre che il fatto è molto più complicato di come già appare, sarebbe tra i più sorprendenti. Si perchè sarebbe il momento dell’entrata in scena della massoneria, dei servizi segreti e di tantissimi soldi che fanno, ecco, “giri” strani.
ll “Maestro Venerabile” Licio Gelli però non è il personaggio di un libro giallo, ma quello che nel 1980 era il Capo della Loggia Massonica P2. Quello che è certo, oltre a questo, è che Gelli incontrò di persona l’allora
capo del Sisde (Servizio segreto per le informazioni e la sicurezza), Pietro Musumeci, intimandolo e ordinandogli di smetterla di indagare sulla pista del “terrorismo nero” (nazisti e fascisti), ma di concentrarsi
piuttosto sulla (falsa) “pista internazionale”.
Musumeci eseguì l’ordine del Maestro e i depistaggi furono sempre di più; tanto che ancora oggi qualche irriducibile si ostina a usare la carta della pista internazionale come grande verità mai presa in considerazione.
La commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi, ha concluso però che Gelli, già nei primi anni Settanta, aveva finanziato «gruppi terroristici di ispirazione neofascista o neonazista», compresi i responsabili dei «primi attentati ferroviari», condannandolo come regista del maxi-depistaggio della Strage di Bologna.
Il capo della P2 allora, oltre a depistare palesemente le indagini, aveva finanziato anche gli stragisti di Bologna? Non lo sapremo mai. L’unica cosa certa è che Licio Gelli è morto senza scontare nemmeno 1 giorno di galera, non in Italia almeno, e non per la Strage di Bologna; ma in Svizzera e in Francia, per svariati crac finanziari e frodi plurimilionarie.
Come diceva spesso il più famoso magistrato antimafia, Giovanni Falcone: «Follow the money». È fondamentale, se si vuole arrivare ai vertici delle mafie e dei gruppi deviati, seguire gli enormi flussi finanziari, collaborando con le banche e ispezionando i conti correnti italiani in Italia prima, e quelli italiani – ma inespugnabili – in Svizzera poi, come nel caso di Gelli e dei suoi tirapiedi.
In questa storia, riflesso di uno dei periodi più bui dell’Italia, nessuno ha confessato niente. Gli esecutori materiali come Mambro, Fioravanti e Ciavardini hanno sempre ammesso gli omicidi politici che gli sono costati 8 ergastoli (poi mai applicati), ma mai la colpevolezza delle morti di Bologna, ritenendosi estranei e incapaci di mettere in piedi da solo un colpo così grosso.
Quella che è stata la Strage di Bologna probabilmente non potrà mai essere capita ma può e deve essere ricordata.
Come l’ormai celebre orologio ancora appeso fuori dalla stazione segna le 10.25, ora in cui ha smesso di funzionare.
E in cui l’Italia è entrata in un tunnel di dubbi, incertezze, timori, da cui non è ancora uscita. La pagina di Bologna resta una delle più indecifrabili della nostra storia, una ferita dell’anima, che abbraccia le famiglie delle vittime e pone sempre a tutti interrogativi pressanti. Una strage “senza colpevoli”, ma con “tanti colpevoli”, come per altre pagine nere. Per questo, il 2 agosto è necessario ricordare chi quel giorno ha perso la vita mentre andava, o tornava da una vacanza, l’ultima.
Vanessa Righetti