Quando Ligabue esce dalla solitudine La storia dell’artista, che ritrova se stesso e la propria dimensione tornando a casa

Prima di tutto e al di sopra di ogni altra cosa Antonio Ligabue voleva nascondersi. Camuffarsi, forse svanire, per far scomparire insieme a sé stesso anche una sofferenza esistenziale che mai nel corso della sua vita gli ha dato tregua. Voleva nascondersi, l’artista naïf del XX secolo; ma il suo incontenibile talento per un’arte spontanea e travolgente gliel’ha impedito, gettando invece la sua strana figura sotto i riflettori di un élite intellettuale ancora oggi troppo sofisticata e snob per comprenderlo a fondo.

Esposizione e nascondimento: segue il ritmo di questa insolita oscillazione il Volevo nascondermi di Giorgio Diritti (ora visibile su Sky on demand), biopic capace di andare oltre il folklore biografico per catturare l’inquietudine di un uomo che per tutta la vita ha dovuto lottare per dare forma e significato ai propri sogni. Dimensione onirica ha poi anche la struttura del film, che alla linearità cronologica preferisce il tortuoso percorso dell’accostamento di flashback: il racconto della vita di Ligabue assume così la forma di un ritorno alle origini, scene di una vita infantile afflitta dalla povertà, da una capacità psico-fisica ridotta a causa del rachitismo, ma anche salvata dall’amore, profondo e sincero, per la propria madre Elisabetta, morta tragicamente nel 1913. Affidato a una coppia di svizzeri tedeschi, il piccolo Ligabue inizierà a mostrare segni di squilibri, e dopo varie crisi nervose verrà spedito a Gualtieri, paese di origine del padre. Nell’Emilia rurale del dopoguerra Ligabue si libererà dei suoi demoni e troverà la propria dimensione artistica: una natura selvaggia ma gentile, fatta di campi biondeggianti da lui popolati di animali esotici e della sua stessa figura, ritratta sempre «fuori squadro», ma non più nascosta nei meandri della propria solitudine.

Nell’interpretazione del pittore Elio Germano mette anima e corpo, e grazie a una gestualità misurata riesce a non cadere mai nel manierismo, donando una profondità non comune a un personaggio difficilissimo da catturare nella sua essenza. L’essenza della terra e la memoria delle origini sono poi il fulcro dell’intera opera di Diritti, che attraverso una regia sobria e spesso indugiante sui paesaggi naturali dimostra di essere un grande conoscitore tanto del territorio quanto dell’umanità rurale emiliana; una popolazione variegata, spesso ritratta nell’atto del lavoro quotidiano, nella convivialità contadina e nell’uso di un dialetto stretto capace di esprimere un forte legame con la natura, che era poi lo stesso di cui Toni, “El matt”, “El Tudesc”, si nutriva per le sue opere. Dare spazio a quella furia creativa attraverso pennello e tela lo ha fatto tornare alla luce; vivere della gentilezza del prossimo ha significato fare di nuovo esperienza di un amore, originario e materno, del quale troppo presto era stato privato. E che una volta restituitogli gli ha permesso di sbocciare.
Maria Letizia Cilea