Eccoci dunque a Mexico City, Olimpiadi1968: poco ossigeno nell’aria e 2.250 metri in altura, è il 17 ottobre. Due settimane prima, un po’ come nell’Argentina di dieci anni dopo, fuori dallo stadio, i militari hanno ucciso oltre 300 manifestanti tra contadini e studenti, sparando ad altezza d’uomo. Tra loro c’era Oriana Fallaci, ferita e portata in ospedale da un prete che l’ha raccolta esanime. Una strana coincidenza che ancora una volta lega sport e dittature. Quel giorno d’autunno Bob Beamon, l’amico Ralph e altri provano la qualificazione per la finale del lungo. Beamon comincia con due nulli e ha una sola prova a disposizione. La spunta per miracolo e torna in albergo. Si infila sotto le lenzuola con la sua amante Gladys e una bottiglia di tequila.
Il mattino dopo ha il tipico mal di testa post-sbornia e riflette sui fallimenti della propria vita, dal matrimonio ai debiti, dalla sua infanzia disperata all’ostilità di una certa America. Ma c’è la finale, che lo aspetta.
Sono le 15.49 quando tocca a lui. Ricorda le parole del suo amico: “Il segreto del lungo è uno solo, la velocità. Pensa agli aerei, per decollare corrono”. Chiude gli occhi, abbassa la testa alle ginocchia e parte come un’antilope. Diciannove passi nelle Adidas chiare, 38 chilometri all’ora e lo stacco, a un centimetro dalla riga bianca. Ci vorranno 20 minuti buoni prima che i giudici riescano a misurare quel volo: 8,90.
Lui sgrana gli occhi, poi si inginocchia e piange. Quindi si rialza e comincia a correre, dove non si sa, ma poco importa, perché Bob Beamon è già diventato una leggenda.