Paolo Valenti non era semplicemente un noto giornalista: era anche stimato e, soprattutto, era amato. Perché? Qual era il vero filo, invisibile e tenacissimo, che lo legava all’immensa, composita, volubile, difficile platea radiotelevisiva?
Assunto alla Rai nel 1950. Lunga trafila nel giornalismo radiofonico, prima generico e poi sportivo. Quattro Olimpiadi e tanti Giri d’Italia, capace di tenere sveglia l’Italia con la memorabile radiocronaca di Benvenuti–Griffith dal Madison Square Garden nell’aprile del ’67. E poi l’invenzione di «Novantesimo minuto», con Maurizio Barendson e Remo Pascucci, i pionieri dello sport sul video di RaiDue. Quarant’anni di microfono, venti di gol domenicali, una vita fra radio e TV. Abbastanza per essere noti, non sufficiente per essere amati.
Che cosa aggiungeva di suo, di profondamente personale, di tacitamente espresso, Paolo Valenti?
La signorilità, per cominciare. Paolo Valenti arrivava nelle case con cortesia e discrezione. Non contraddiceva, si permetteva soltanto di dubitare. Non snocciolava verità rivelate, osava soltanto proporre un’ipotesi o una testimonianza. Occorreva un occhio esercitato per cogliere i particolari di questo tratto tanto fine: il bon ton di Valenti era così naturale, da risultare appena riconoscibile. Tuttavia, anche senza spiegarsela, i telespettatori avvertivano una differenza fra quel distinto signore e una certa crescente marea di cafonaggine.
Henry Shapiro, corrispondente da Mosca all’epoca di Stalin e poi leggendario direttore della United Press International, cominciò un suo celeberrimo libro sul giornalismo con questa frase: «Io scrivo per il garzone del latte, sono un giornalista». Forse Paolo Valenti aveva letto quel libro e perciò ne applicava, senza darlo a vedere, con la disinvoltura del gentiluomo, la profonda lezione. Che era quella di parlare facile, usando le espressioni che usa la gente comune, anzi: che usano i bambini.
Frasi come «un bel salto in avanti», «eh, oggi non è andata troppo bene», ritenute puerili e banali dagli intellettuali (?) della esegesi sportiva, servivano invece a Valenti per raccontare il calcio come una favola e per entrare così nel cuore dei suoi spettatori. Con semplicità. Quella che tante volte non c’è più nei complicati racconti del calcio di oggi.