L’influenza spagnola fu una pandemia influenzale che si diffuse tra il 1918 e il 1920. Infettò oltre 200 milioni di persone in tutto il mondo, arrivando fino all’Australia e alle remote isole dell’Oceano Pacifico e del Mar Glaciale Artico, causando più di 10 milioni di morti. Alcuni dati riferiscono di circa 50 milioni di decessi su una popolazione mondiale di 2 miliardi. In Italia la fase più aggressiva si verificò tra luglio e ottobre del 1918, quando si ammalarono tremila persone al giorno, provocando circa 400 mila morti. Si trattò della prima pandemia del XX secolo ad essere causata dal virus dell’influenza RNA H1N1, caratterizzato da un’estrema variabilità del materiale genetico, che gli permise di evitare maggiormente le risposte del sistema immunitario.
Il termine “Spagnola” si deve al fatto che i primi a documentarne l’esistenza furono i giornali spagnoli, in quanto la Spagna non era coinvolta nella Prima guerra mondiale, scoppiata in quegli anni, e la stampa non era soggetta alla censura.
I primi casi ufficiali si registrarono nel marzo del 1918 negli Stati Uniti, a partire dal campo di addestramento Camp Funston di Fort Riley, nel Kansas, costruito per accogliere parte dei 50mila uomini arruolati nell’esercito: il 4 marzo il cuoco Albert Gitchell si presentò in infermeria con la febbre alta e nel giro di poche ore un centinaio di soldati mostrarono gli stessi sintomi, altri ancora si sarebbero ammalati nelle settimane seguenti. Ad aprile l’esercito statunitense sbarcò in Europa, portando con sé il virus e dando il via alla prima delle tre ondate della pandemia.
Dopo la sua apparizione, la malattia calò d’intensità nel giro di qualche settimana, ma si trattò di una tregua temporanea. Nel settembre del 1918 iniziò la seconda ondata, la fase più letale: fino a dicembre di quell’anno infatti si registrò il periodo più intenso, con il maggior numero di vittime. Anche in questo caso il contagio viaggiò grazie al rapido movimento delle truppe nel mondo.
Nel gennaio del 1919 ci fu la terza e ultima ondata, con la malattia che ormai era diventata meno violenta e con un netto calo del tasso di mortalità. Si ebbero casi di decessi fino al 1920, ma già nell’estate del 1919 le politiche sanitarie e la naturale mutazione genetica del virus posero fine all’epidemia.
Come già altre precedenti forme influenzali, con le quali condivideva gli stessi sintomi (febbre alta, polmonite e frequenza cardiaca ridotta), la Spagnola colpì non solo persone anziane o già malate, ma anche giovani adulti, tra i 20 e i 40 anni, in ottimo stato di salute: alcuni ricercatori ritengono che la loro elevata mortalità fosse legata all’eccessiva reazione del sistema immunitario del loro organismo al virus, cosa che invece non accadeva negli anziani e nei bambini, con delle difese immunitarie più basse.
Ulteriori studi più recenti effettuati sulla base dei referti medici del tempo hanno evidenziato come l’infezione virale non fosse tanto più aggressiva di altre influenze, tuttavia le circostanze di quel particolare momento storico facilitarono il suo diffondersi: nel 1918 infatti la Prima guerra mondiale era già scoppiata da quattro anni e aveva portato con sé malnutrizione, scarsa igiene e ospedali sovraffollati. Inoltre il conflitto si era trasformato in una guerra di posizione, con milioni di soldati costretti ad ammassarsi nelle trincee sui vari fronti, favorendo così la diffusione del virus in tutta Europa.
Questa pandemia è stata descritta come “il più grande olocausto medico della storia” e in numeri assoluti ha ucciso più persone della peste nera. In generale si calcola che la mortalità sia stata tra il dieci e il venti per cento dei contagiati, con una notevole riduzione dell’aspettativa di vita dell’inizio del XX secolo che, nel primo anno dal diffondersi della pandemia, risultava diminuita di circa 12 anni.
Jacopo Segalotto