Platone e il suo mito della caverna Perchè oggi è più facile adattare i fatti all’opinione, piuttosto che l’opinione ai fatti

In uno dei suoi dialoghi più celebri, la Repubblica, Platone narra uno dei miti più famosi nella storia della filosofia, il cosiddetto “mito della caverna”.
Il racconto riporta di un gruppo di schiavi incatenati in una caverna, al buio, rivolti verso una parete sulla quale vengono proiettate delle ombre prodotte da figure che scorrono alle spalle degli osservatori, illuminate da un braciere. Uno schiavo, liberato dalle catene, esce dalla caverna e contempla, per la prima volta, il mondo in cui si trova e la luce del sole; rientrato nella caverna, riporta ciò che ha visto agli altri schiavi, i quali, non credendogli, lo uccidono. Questo racconto filosofico, inteso da Platone come utile illustrazione della sua teoria ontologica e del fatto che gli uomini si muovono in un mondo di opinione, che rispecchia solo parzialmente il regno della verità, è stato tra i più interpretati.
Come ogni mito, in ogni caso, esso può sollecitare interrogativi diversi: ad esempio, una riflessione sull’informazione, in rapporto alla verità o all’aspettativa che se ne ha. Perché, in effetti, gli schiavi ancora incatenati dovrebbero uccidere lo schiavo liberato? Sembrerebbe non esserci alcun motivo logico, anzi, la prospettiva sarebbe sicuramente, in un senso ideale, molto migliore una volta che le catene venissero rimosse e nuove prospettive venissero aperte.
La verità, almeno teoricamente, dovrebbe essere preferibile alla menzogna. Eppure così non è, neppure oggi. Il proliferare delle cosiddette fake news, fenomeno estremamente dannoso a livello sociale, non può essere imputabile solo e soltanto a coloro i quali le fabbricano e le diffondono.
L’informazione necessita, naturalmente, di essere recepita. Perché, dunque, una vasta parte della popolazione accetta queste notizie? I motivi sono molti, e ampiamente indagati: tra essi vi è sicuramente un’incapacità, da parte di alcuni, di individuare una notizia poco credibile, o addirittura palesemente falsa. D’altro canto, può intervenire la dinamica per cui si crede a una notizia assurda proprio perché è assurda, in un singolare riadattamento contemporaneo del motto attribuito a Tertulliano credo quia absurdum.
Ancora, si sceglie, più o meno consapevolmente, di credere a notizie false nel momento in cui queste incontrano le aspettative di chi le recepisce: è più confortante, e più facile, adattare i fatti all’opinione, piuttosto che l’opinione ai fatti. Eppure i fatti esistono, e, nonostante l’idea corrente, alcuni di essi difficilmente possono essere dibattuti, e il sistema di informazione deve – o dovrebbe – combattere in favore del fatto, anche a rischio di fare la fine dello schiavo di Platone. Che questo avvenga non è, purtroppo, scontato né comune.

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