Continua il dibattimento sulle cause dell’inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche che ha colpito le province di Verona, in particolare i Comuni della Bassa, Vicenza e Padova. Dal 1996, e con gradi di consapevolezza sempre maggiore, Miteni e i suoi vertici erano a conoscenza dell’esistenza di situazioni di passività ambientale nel sottosuolo e nelle acque sottostanti lo stabilimento.
Lo dimostrerebbe il fatto che i consulenti dell’azienda, in particolar modo la società internazionale ERM, avevano raccomandato di adottare misure di contenimento dell’inquinamento.E, proprio in questa prospettiva, si spiegherebbe la realizzazione da parte di Miteni, rispettivamente nel 1998 e nel 2005, di pozzi di controllo e di una barriera di emungimento e trattamento della falda.
È quanto emerso dalla deposizione, dinanzi alla Corte d’Assise, del maresciallo maggiore del Noe di Treviso, Manuel Tagliaferri, l’investigatore che ha condotto, su incarico della Procura, i tre filoni d’inchiesta che hanno portato all’avvio del maxi procedimento in corso nel capoluogo berico.
Gli imputati sono 15 manager di Miteni, Icig e Mitsubishi Corporation, accusati a vario titolo di avvelenamento delle acque, disastro ambientale innominato, gestione di rifiuti non autorizzata, inquinamento ambientale e reati fallimentari.
In particolar modo, relativamente alle barriere idrauliche, le risultanze già acquisite ed esposte da Tagliaferri avrebbero dimostrato l’inadeguatezza della misura di prevenzione e tutela.
«Trova quindi ulteriore conferma la tesi difensiva degli operatori idrici – commenta l’avvocato Marco Tonellotto, che con i colleghi Angelo Merlin e Vittore d’Acquarone difendono Acque del Chiampo, Viacqua, Acquevenete e Acque Veronesi, costituitesi parti civili – per cui l’evento in contestazione è causalmente riferibile ai processi industriali di Miteni e alla mancata gestione e interdizione di un rischio, del quale la società aveva piena e completa consapevolezza».