Peccato, una Diana… dimenticabile Il ritratto che ne esce non è all’altezza delle attese: la pellicola non passerà alla storia

Prima Jackie, ora Diana. Continua a collezionare ritratti di first ladies il cileno Pablo Larràin, che a quattro anni dal biopic su Jackie Kennedy si dedica al ritratto cinematografico della principessa che non ha mai voluto essere regina. Donna, madre e moglie mai abbastanza regale da risultare idonea a un sistema di potere basato interamente sulle apparenze, sul triste destino di Diana Spencer è stato costruito un mito popolare che ancora oggi alimenta leggende e inchieste sulla realtà dei fatti sfociati poi con la tragica morte della donna in un misterioso incidente stradale, nella notte tra il 30 e il 31 agosto 1997.
La pellicola di Larràin si sofferma sulla Vigilia di Natale del 1991, fase che precede di pochissimo l’annuncio di una crisi con il principe Carlo, poi culminata con lo scandaloso divorzio del 1995. Già prigioniera di un castello dorato pieno di porte cieche, nel ‘91 Lady D ha 30 anni, il titolo di principessa di Galles, due eredi e una quotidianità fatta di continue lotte: contro l’istituzione, contro la sua famiglia, contro suo marito, contro sé stessa. Anomala nella sua voglia di spontaneità e fragile nelle sue insicurezze, la vediamo cavalcare una cabrio a tutta velocità verso Sandringham, località di festeggiamenti natalizi per la famiglia reale inglese, ma anche luogo della sua infanzia, spazio mentale e fisico nel quale è innanzitutto la nubile (ma nobile di origine) Spencer a essere cresciuta.
Nella discrasia tra la Diana Spencer e la Principessa di Windsor si colloca l’intera operazione cinematografica del regista, che in Spencer si avvale della penna di Steven Knight per studiare e rappresentare il disagio – psichico, fisico ed esistenziale – vissuto da una donna pura incastrata in un perenne ballo di maschere e convenevoli ai quali è impossibile acclimatarsi. Fantasma in continua ricerca di sé, la vediamo aggirarsi per le sale del palazzo nell’attesa di incontrare qualcuno in grado di farla sentire nuovamente un essere umano. Ma se la glacialità del contesto famigliare si respira nei colori freddi e nei pochi dialoghi che intercorrono tra i personaggi, scarsa consistenza viene data anche alla verve ribelle e contestatrice della donna, personaggio rivoluzionario qui trasformato in un’ombra, incapace di far trasparire quella necessità di amore della cui mancanza tanto la Diana reale dovette soffrire. Imitando l’accento e le movenze della donna, Kristen Stewart incarna dunque una macchietta povera di personalità e vuota in un’estetica forse perfetta, ma priva di quel calore che si vorrebbe da un personaggio così cinematograficamente impattante. Non bastano i ripetuti rifiuti di cibo, vestiti di corte e fotografie di famiglia rappresentati ossessivamente da discutibili scelte di scrittura per raccontarci il trauma psicofisico subito da una donna ripudiata a tal punto da perdere la propria identità; e se anche la debole rievocazione di un’infanzia felice e perduta riesce a sollevare, di tanto in tanto, il ritmo della narrazione, la composizione finale non potrà che risultare monocorde e, in definitiva, dimenticabile.

VOTO 5

Maria Letizia Cilea