E poi ti arriva, chissà come, chissà perchè, una foto come questa. E’ lui, sì, proprio lui, l’Osvaldo. Ha in mano un rastrello, ma che ci fa l’Osvaldo col rastrello? “Ma come, non vedi, sta sistemando il terreno dell’antistadio, sarà prima di un allenamento…”.
Ma va’, dici, mica è possibile, lui che sistema il terreno? “Ma sicuro, una volta non era come adesso, eh… Sai, una volta l’Osvaldo si portava in campo pure i palloni nella rete, a spalle. E sistemava pure i coni per l’allenamento, c’erano lui e il Toni Lonardi. Il suo vice, che era anche allenatore dei portieri. In due, eh, pochi ma buoni…”.
Già. E allora ti prende davvero un po’ di malinconia e ti chiedi dove stiamo andando, o forse, dove siamo già andati. “Ma te l’immagini l’Osvaldo con uno staff di sette/otto persone?”. No, difficile immaginarlo, anzi, impossibile. “E te l’immagini, lui, con i droni per riprendere gli allenamenti e i match analyst che gli danno le percentuali del possesso palla?”.
No, impossibile, sai cosa gli direbbe l’Osvaldo? “Uhè, gli direbbe, son mi l’alenadur”, con quel suo dialetto milanese che sfoggiava quando aveva da dire qualcosa di importante. Non gli servivano i dati sul possesso palla, a lui che sognava sempre l’azione perfetta. “Garella che rinvia, Elkjaer che la tocca di testa, il Nanu che va in porta”. Tre passaggi. E tanti saluti alla “costruzione dal basso”, al “possesso palla”, ai match analist, ai droni e a tutto il resto. A quelli come l’Osvaldo bastava l’occhio. “Un’occhiata delle sue valeva più di mille parole” dicono i suoi.
E quando serviva, se serviva, il rastrellolo prendeva lui, non aveva bisogno di aiuto. Erano altri tempi, dici? Ma no, erano tempi belli, invece. E forse, uno scudetto si vince anche così…
Raffaele Tomelleri
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