“Com’eri vestita?” è una domanda che le donne vittime di violenza si sentono spesso rivolgere. Il quesito scaturisce da profondi stereotipi che ritengono, a vario titolo, chi subisce le aggressioni corresponsabile del trattamento ricevuto. Per aprire il confronto e tentare di sgretolare un esteso pregiudizio (quello che vede nell’abito indossato il principale elemento d’istigazione alla crudeltà maschile) è stata allestita, a Madonna di Campagna, nell’aula ex Consiglio, la mostra-installazione “Com’eri vestita? Te la sei cercata, te la sei voluta”. L’abbigliamento usato al momento dell’abuso, lo stesso che ogni donna potrebbe utilizzare per andare a scuola e al lavoro o per trascorrere il tempo libero e una serata in compagnia, diventa il pretesto espositivo per raccontare storie di violazione. L’iniziativa, più volte proposta a Verona in passato e oggi inserita nel cartellone comunale “La città delle donne”, si lega alla recente “Giornata internazionale dei diritti delle donne” ed è organizzata dalla settima circoscrizione con l’associazione veronese “Isolina e…”. Da anni il progetto, prendendo spunto da una prima installazione del 2013 all’Università americana dell’Arkansas, sta facendo il giro del mondo. L’idea dell’originario allestimento è di Mary Wyandt-Hiebert e di Jen Brockman (promotrici, in ambito universitario, di prevenzione e supporto alla violenza) che, raccogliendo le testimonianze di alcune studentesse e ispirandosi al poema autobiografico di Mary Simmerling “What Were You Wearing?”, hanno pensato di lanciare un forte messaggio in difesa delle donne violate (nell’identità e nel corpo), partendo dall’insinuazione di un loro presunto atteggiamento sfidante o seduttivo. “Com’eri vestita? Mi hanno fatto questa domanda molte volte. Avevo una maglietta bianca di cotone a manica corta e girocollo infilata in una gonna di jeans”, scrive Mary Simmerling per raccontarci, con parole immediate, cosa indossava quel tragico giorno e a quali pregiudizi ci si espone denunciando l’abuso. Nella simbolica narrazione visiva si rende palese un’insopportabile inversione di responsabilità che trasforma la vittima in colpevole. “Com’eri vestita?”, diventa la domanda insistente degli inquirenti, dei conoscenti, dei giornalisti unita a “perché non hai urlato?” o “perché non hai evitato di uscire da sola”. Tanti quesiti che spostano la responsabilità dell’aggressore sulla persona aggredita ed evidenziano una presunta colpa per non essersi adeguatamente difesa o per aver deliberatamente provocato. In questi anni il progetto, oltre alle tante mostre itineranti adattate visivamente a più contesti socio-culturali, ha ispirato laboratori, performance, raccolte fondi e incontri tematici ospitati da università, agenzie educative e associazioni culturali. Gli obiettivi dell’iniziativa sono, quindi, molteplici: smantellare uno stereotipo tristemente diffuso, promuovere maggiore consapevolezza su un tema di tragica attualità e combattere il senso di colpa provato dalle vittime. Partendo da esperienze di ordinaria quotidianità chi visita la mostra a Madonna di Campagna (aperta fino al prossimo 16 marzo) può constatare, in modo tangibile, quanto sia comune e famigliare l’abbigliamento usato da chi subisce violenze sessuali e identificarsi nelle storie narrate. “Com’eri vestita?”, ci dice ancora Mary Simmerling nel suo poema, “l’ho ricordata molte volte questa domanda. La risposta. I dettagli. Ricordo anche che cosa lui stesse indossando quella notte, anche se, è vero, questo nessuno me l’ha mai chiesto”.
Chiara Antonioli