“Ora vi spiego quella maglietta rossa” Bertolucci ricorda la Davis in Cile: "L'idea di Adriano, era protesta contro Pinochet"

Il destino scritto nel nome. Inconsapevolmente tennista già da piccolissimo e poi per tutta la vita. Regista in campo con il fedele compagno Panatta nell’unica Coppa Davis conquistata dall’Italia nel ’76 a Santiago del Cile, e anche in solitaria: 6 grandi tornei vinti (3 addirittura nello stesso anno) quando arrivò tra i migliori 12 al mondo nella classifica ATP e terzo assoluto nella graduatoria dei tennisti italiani per numero di vittorie nel circuito maggiore.
Paolo Bertolucci da quando è nato a Forte dei Marmi ha sempre respirato l’odore della pallina da tennis, per merito principalmente dei
suoi genitori. Fino ai giorni nostri, ormai da diversi anni cittadino veronese.
Da dove parte la sua passione per il tennis?
Parte da mio padre che era un maestro di tennis e con mia madre gestivano un circolo. Il primo suono che ho udito in culla è stata la palla da tennis sbattuta da una racchetta all’altra, a 1 anno e
mezzo giravo già per casa con una racchetta in mano.
Le avevano attribuito un paio di soprannomi simpatici, in quali si riconosceva?
Mi riconosco in entrambi: “Braccio d’oro” perchè avevo facilità di gioco e “Pasta kid” invece me lo diede il più famoso giornalista americano di tennis, un po’ per il fisico e un po’ perchè ero un
19enne italiano.
Parlando invece della sua carriera, quali vittorie ricorda con più soddisfazione?
Quella più importante a livello individuale sicuramente Amburgo, torneo importantissimo al pari di Roma, e a squadre naturalmente la vittoria della Coppa Davis in Cile. Era un momento particolare, c’era un discorso politico molto forte, mezza Italia non voleva che andassimo per protestare contro
il regime di Pinochet e lo stesso nostro capitano Pietrangeli venne telefonicamente minacciato di
morte.
Disputaste la finale indossando delle magliette rosse, per protestare contro la dittatura di Pinochet. Cosa stava a significare per voi?
Volevamo dare un segnale politico, un messaggio di vicinanza al loro popolo, dimostrare il nostro completo disgusto per il regime di Pinochet e per qualsiasi forma di regime che fosse di destra o di sinistra. L’idea fu di Panatta che me lo propose la sera prima del doppio, non avevamo mai giocato
con la maglietta rossa e volevamo dare un segnale forte. Al nostro ritorno siamo atterrati in sordina, come dei ladri perchè avevano paura di incidenti. La solita cosa all’italiana e questo dispiace.
Di recente lei ha dedicato una lettera ad Adriano Panatta per i suoi 70 anni pubblicata sulla Gazzetta dello Sport. Che tipo era?
Ah il vecchio Panatta… (ride). Ci siamo conosciuti a 11 anni e cresciuti assieme, ho dormito più volte in camera con lui che con mia moglie. Quando ci vediamo è sempre divertente, ci siamo sempre presi in giro e continueremo a farlo. Io basso e tarchiato, lui alto e bello, io giocavo a destra e lui a sinistra: molto diversi come caratteristiche, ma con una visione della vita molto simile. Erano tempi diversi, non avevamo uno staff formato da 10 persone come hanno adesso i giocatori professionisti, c’era una forte componente goliardica, serietà, ma anche risate e la sera andavamo al ristorante con gli avversari. Giravamo il mondo giocando a tennis, e non guadagnavamo moltissimo, niente di trascendentale.
Altre cifre rispetto ad adesso?
La Federazione Italiana dopo la vittoria in Coppa Davis ci premiò con un orologio, e quando ho vinto ad Amburgo il premio era sui 6.000 dollari. Adesso chi vince si aggiudica tra gli 800/1 milione di dollari, ma in quel momento erano più che sufficienti. Erano gli inizi e siamo stati dei pionieri, andavamo all’avventura, con prenotazioni di voli e hotel gestite direttamente da noi.
Oltre all’aspetto economico, cos’è cambiato nel tennis moderno?
Sono cambiate mille cose, dalla tipologia di allenamento all’alimentazione: noi mangiavamo il filetto prima di giocare ed era proibita la pasta, adesso il contrario. Sono cambiate le superfici, le
palle, le racchette. E soprattutto le scarpe, noi giocavamo con le Superga con la suola a “buccia d’arancia”. Oggi hanno delle scarpe che corrono da sole.
Come vede il tennis oggi in Italia?
E’ un momento particolarmente florido, per anni siamo rimasti in piedi grazie alle donne, adesso tocca agli uomini. Sinner coi suoi 19 anni è il primo della lista, Musetti ha 18 anni ed è dotato di gran talento. Berrettini a 24 anni è il numero 10 del mondo e poi c’è sempre Fognini anche se non
più giovanissimo. Per le ragazze invece è momento duro, mancano tenniste come Schiavone, Pennetta, Errani e Vinci. Martina Trevisan con questo grande risultato a Parigi a 27 anni ha scoperto
una seconda giovinezza, speriamo bene.
Da circa 10 anni vive a Verona, come mai questa scelta?
Perchè ho girato il mondo e sia Roma che Firenze sono troppo caotiche, poi il cuore mi ha portato qui. E’ una città bellissima, con mille pregi e pochi difetti, abito in pieno centro, è una città viva. I veronesi sono persone tranquille e poi si mangia bene.
Cosa l’ha conquistata della cucina veronese?
La “pastissada de caval” e ovviamente la “pearà”, difficile la domenica rinunciare al bollito.
Oggi Bertolucci di cosa si occupa?
Mi occupo sempre di tennis, scrivo per La Gazzetta e commento per Sky i grandi tornei. Parecchi allenatori mi chiedono di andare a vedere i loro giovani, i classici consigli che chiedono ai “vecchi”
come me.
Fabio Ridolfi