E’ trascorso poco più di un mese dall’11 Novembre quando Giulia Cecchettin, 22 anni di Vigonovo, esce di casa per trascorrere una serata con l’ex fidanzato Filippo Turetta, poi l’aggressione di lui, in parte immortalata dalle telecamere di sicurezza, la fuga e l’abbandono del corpo senza vita in un canalone nei pressi del lago di Barcis. Da allora il padre di Giulia e la sorella maggiore si sono molto esposti in difesa della memoria della ragazza ma anche criticando il Paese di convivere con una forma subdola di patriarcato, dove il femminicidio può essere il risultato di una cultura che svaluta la vita delle donne. L’Italia intera ha seguito passo passo tutta la vicenda, a partire dai due ragazzi dapprima dati per scomparsi, per poi scoprire il drammatico epilogo. Se gran parte del pubblico ha empatizzato con il dolore della famiglia di Giulia e apprezzato il suo farsi porta voce di quella che è stata da molti definita un’emergenza nazionale, dall’altro c’è chi non ne gradito lo stile comunicativo valutato come troppo lucido, dignitoso e “distaccato” e chi ha vissuto questa famiglia persino come disturbante e alla mera ricerca di visibilità. E’ notizia di questi giorni che il papà e la sorella di Giulia hanno depositato le prime denunce alla Polizia Postale di Mestre in quanto bersagliati da insulti e minacce, anche di morte, ricevute dai cosidetti “leoni da tastiera”. Alla base di tali giudizi il fatto di non essersi mostrati addolorati come il senso più comune detta, il non essersi chiusi nella loro sofferenza ma al contrario il proporsi ai media, il voler allargare il problema dal loro nucleo alla comunità, additando il genere maschile come a un archetipo ancorato alla disuguaglianza di genere. Il modo di fronteggiare la situazione di Gino ed Elena Cecchettin per qualcuno è risultato talmente fastidioso da portarlo a parlare di loro in termini offensivi e a domandare perché questo femminicidio ha avuto più visibilità di altri. Arrivando a insinuare che esistano morti di serie a e di serie b. Ma cosa ci si aspettava da queste persone? Forse che soffrissero in modo diverso, più intimo, magari più simile al nostro? Può essere che il loro atteggiamento abbia creato smarrimento e persino turbato alcuni di noi? E il fatto che si siano fatti promotori di un messaggio così importante come il voler intraprendere un cambiamento nella società, a partire dalla loro esperienza, può aver spiazzato alcune persone? Che fare quindi, di fronte a queste realtà? Continuare a ribadire che noi non ci saremmo mai comportati così, come se fosse poi possibile immaginarsi in una simile situazione… Proseguire nel sottolineare che non sembrano soffrire abbastanza o come avremo previsto? Alludendo persino alla mancata autenticità del loro dolore? O forse vale la pena chiedersi perché delle persone che non conosciamo, che probabilmente non conosceremo e che sì, forse non ci assomigliano, ci procurano così tanto disappunto? Magari vale la pena di fermarsi a riflettere sul nostro modo di essere e pensare che la storia di Giulia, e della sua famiglia, forse ci può insegnare anche a parlare di come ognuno di noi vive il proprio dolore e di quanto questo vada rispettato, perché il dolore non risponde a delle regole, è soggettivo, è personale e ognuno ha il diritto di esprimerlo.
Sara Rosa, psicologa e psicoterapeuta