33 voti a favore. 13 contrari. 10 astenuti. È con questi numeri che il 29 novembre 1947 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approva quella che passerà alla storia come la Risoluzione 181. Si tratta del piano di spartizione della Palestina mandataria, elaborato da un comitato costituito ad hoc, l’UNSCOP (United Nations special Committee on Palestine), dopo il fallimento della gestione del governo britannico e la decisione di quest’ultimo di deferire il problema alle Nazioni Unite.
Arabi ed ebrei: rivendicazioni valide ma inconciliabili
Il principio che guidò l’operato dell’UNSCOP nei mesi precedenti all’approvazione del piano, era che le rivendicazioni degli arabi e degli ebrei sulla Palestina, pur essendo entrambe valide e radicate, fossero di fatto inconciliabili e che tra le soluzioni avanzate, la spartizione assicurasse l’assetto più realistico e attuabile. Il piano prevedeva dunque la creazione di due stati*, mentre Gerusalemme, a seguito delle pressioni del Vaticano, sarebbe stata un “corpus separatum”, una città dallo statuto internazionale amministrata dalle Nazioni Unite.
I metodi usati confinarono con lo scandalo
Un problema grave era legato all’ampia percentuale di popolazione araba che avrebbe fatto parte dello stato ebraico, proposto dal piano. Lo squilibrio nella ripartizione della popolazione era dettato dalla preoccupazione di lasciare il minor numero possibile di ebrei sotto governo arabo, senza tener conto tuttavia della reciprocità di tale principio. I leader palestinesi non si dimostrarono all’altezza del loro compito e non seppero sviluppare questi argomenti che, se utilizzati in maniera adeguata, avrebbero potuto portare loro qualche punto di vantaggio nelle discussioni che precedettero la votazione. * Inutile dire che alla votazione si arrivò in un clima di aspri contrasti. Alcune delegazioni “minori” furono sottoposte a forti pressioni, dalle grandi potenze. Tanto che in seguito, un osservatore disincantato come l’allora segretario americano alla Difesa James Forrestal, disse che “i metodi usati confinarono con lo scandalo”.
Le reazioni: una linea di fuoco e sangue
L’approvazione del diritto ad avere uno stato, fu accolta dagli ebrei con festeggiamenti a Gerusalemme e Tel Aviv, che inasprirono i già tesi rapporti con gli arabi. Il loro portavoce Jamal Husseini aveva già avvisato le Nazioni Unite che le linee di spartizione non sarebbero state altro che “una linea di fuoco e sangue” e così fu. Sebbene in alcune zone, le comunità arabe ed ebraiche cercarono di arrivare a una ricomposizione pacifica della crisi, la realtà generale fu la guerra civile che spianò la strada alla prima guerra arabo-israeliana.
Identità rotte
La democrazia implica convivenza. È in fondo la convivenza stessa degli umani che ha acquisito valenza politica e sociale, come ci ricorda Ian Chambers nel suo “Esercizi di Potere”. La difficoltà di assicurare forme e regole stabili ad un quadro democratico, obbedisce alla necessità di stabilire le modalità di una convivenza pacifica tra umani che sono diversi e diversamente attivi. E se il principio della democrazia è la distinzione, il principio del conflitto è la contraddizione.
Nel solco di questa riflessione è interessante leggere il pensiero di Edward Said, palestinese esule e pensatore “scomodo”, sulla necessità di assegnare priorità culturale alla pratica della democrazia, come unica possibilità di resistenza ai fondamentalismi. La sua lettura del rapporto possibile tra identità israeliana e palestinese era dunque quella di un confronto e una compartecipazione tra identità “rotte”, in una politica di impegno culturale volta alla condivisione delle proprie identità frantumate, in una frantumazione stessa dell’identità.