Il 10 Dicembre 1948, poco prima della mezzanotte, fu approvata dall’Assemblea dell’ONU, riunita a Parigi in sessione ordinaria nel Palais de Chaillot, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (risoluzione 219077A) con 48 voti a favore, 8 astenuti e nessun voto contrario. Il testo era stato elaborato dalla Commissione dei Diritti, formata da 18 membri, che appartenevano a tutti i continenti e rappresentavano vari settori di competenza.
Di fronte all’immane tragedia del secondo conflitto bellico mondiale, durante il quale furono perpetrati i più atroci e devastanti crimini contro l’umanità, attraverso la pratica della guerra totale e dello sterminio pianificato, quel testo compì la rivoluzione di scardinare nelle sue fondamenta l’impianto statocentrico del diritto e delle relazioni internazionali, basato sulla sovranità degli stati, e di porre al centro del nuovo ordine internazionale gli uomini – tutti gli uomini indistintamente – sia in quanto singoli sia in quanto membri di formazioni sociali fino alla loro comune appartenenza all’intera umanità.
L’indiano Ramaswami Mudaliar, futuro presidente dell’ECOSOC, il Consiglio economico e sociale dell’ONU, dichiarò: “vi è una grande realtà, un fattore fondamentale, una verità eterna che tutte le religioni insegnano e che deve essere ricordata da ognuno di noi, la dignità dell’uomo comune, i diritti umani fondamentali di ogni persona del mondo. Questi diritti non possono essere segregati o isolati. Non esiste confine o razza o colore o credo sui quali questi diritti possono venire separati come avviene tra persone e persone. Lasciatemi dire, parlando da asiatico, che questo è un aspetto del problema che non può essere dimenticato.” L’ideazione di quei diritti, fissati nei trenta articoli che formano il testo della Dichiarazione, anche se può apparire come il semplice risultato dell’elaborazione teorica operata da un gruppo ristretto di studiosi, è da considerarsi, in realtà, l’esito finale di un percorso plurisecolare fatto di riflessioni, ricerche e teorizzazioni, che ha meditato a lungo sull’uomo, ha ragionato con passione sul suo valore e ha scrutato a fondo la sua identità. “Migliaia di menti e di mani hanno contribuito alla sua formazione”, affermerà più tardi l’intellettuale libanese Charles Malik. Il francese René Cassin, il filippino Carlos Romulo, il cinese Peng-chun Chang, il canadese John Humphrey, il cileno Hernan Santa Cruz e il già citato Malik furono i membri più attivi, all’interno della Commissione dei diritti umani, presieduta dalla signora Eleanor Roosevelt, nel lavoro di elaborazione e di redazione del testo della Dichiarazione che fu poi sottoposto all’approvazione dell’Assemblea Generale.
“A partire dal Gennaio del 1947 essi diedero vita a un laboratorio plurinazionale di idee, confronti e studi autenticamente interculturale e riuscirono a collaborare in un regime di reale indipendenza da qualsiasi analisi ideologicamente orientata e di totale autonomia da interferenze politiche o volontà egemoniche di qualche superpotenza del momento, come pure seppero essere al di sopra di ogni possibile condizionamento o pressione di carattere economico. Quel documento, assieme alla Carta delle Nazioni Unite approvata nel 1945, segnò la rottura radicale con il paradigma del potere della forza elevato a diritto, che da sempre si imponeva negli accordi internazionali e che dai trattati di pace di Westfalia (1648) operava attraverso la politica del principio di equilibrio. La Dichiarazione mise in discussione, di conseguenza, il correlato assetto gerarchico nei rapporti tra le nazioni, facendo via via valere, a livello internazionale, il paradigma della forza del diritto.
Da quel momento i diritti umani – praticati e assicurati solamente all’interno di alcuni stati – iniziarono a essere riconosciuti, garantiti e promossi universalmente, ossia trasversalmente tra gli stati, dando origine in tal modo, per mezzo della loro codificazione giuridica, al nuovo diritto internazionale dei diritti umani: essi iniziarono a diventare ius positum internazionale.
Si passò, come osserva Antonio Papisca, “dall’era delle sovranità statuali-nazionali-armate-confinarie a quella della ‘costituzionalizzazione’ dello spazio planetario, dal sistema westfaliano delle sovranità statuali, ciascuna superiore non recognoscens, alla democratizzazione delle relazioni internazionali in ossequio al valore supremo della dignità della persona umana”.
Possiamo dire di essere effettivamente entrati nell’età dei diritti, come felicemente titolò la sua raccolta di saggi sull’argomento il filosofo del diritto Norberto Bobbio, anche se quanto sta oggi accadendo in molte parti del mondo sembra smentire un tale asserto e conferirgli un carattere meramente utopistico.
*docente di storia e filosofia