Sulla scia del successo di Parasite (Oscar come Miglior Film nel 2020), arriva nelle nostre sale Madre, film cult del regista coreano Bong joon-ho. A distribuire il film – a dodici anni dal suo debutto -, la P.F.A – Emme Cinematografica, che audacemente ha trovato uno spazio nei cartelloni dei cinema d’essai, ricordandoci quanto sopraffina e densa di contenuti sia la scena del cinema sud-coreano.
Relazioni disfunzionali, disuguaglianze sociali, esplorazione dell’animo umano: attorno a questa complessa sequenza tematica ruota la storia di Do-joon, bizzarro ma inoffensivo giovane con problemi mentali, incarcerato, senza alcuna prova, per l’omicidio di una ragazza del posto. Ma la madre del ragazzo, che ha con lui un rapporto al limite dell’ossessione, si rifiuta di credere che il figlio sia un assassino: la sua convinzione darà inizio a un’indagine ai limiti della legalità, nella quale il confine tra bene e male, tra colpevolezza e innocenza, andrà sempre più assottigliandosi.
«La mamma è sempre la mamma», recita un antico detto popolare. A dire che in Madre questo motto viene colto alla lettera non si sbaglia. Sì, perché la madre del film di Joon-ho ha una potenza pervasiva tale da accentrare l’intera narrazione intoro a sé, e risucchiarla: dedita all’agopuntura e alle erbe medicinali, la sua figura è dotata di quell’aura stregonesca capace di farci predire i più drammatici eventi. E gli eventi drammatici accadono, tanto che l’amato figliuolo si ritrova coinvolto in un caso di omicidio a sua insaputa. Il venir meno dell’oggetto del suo amore fa spezzare in lei qualcosa: da questo momento in poi l’archetipo materno non basta più, la madre si muta nella sua forma primordiale, pronta a compiere gli atti più immondi pur di salvare il suo cucciolo dalle grinfie di una società corrotta e discriminante. Non importa che lui sia colpevole o innocente, conta ristabilire i – malsani – equilibri precedenti, ricostruire quella bolla di quotidianità in cui ogni abitudine aveva il suo posto, ogni gesto la sua ritualità. Ed è così che una trama da giallo all’americana si trasforma in un dramma esistenziale sull’ambiguità delle relazioni famigliari e sul modo in cui esse influenzano la nostra capacità – o in-capacità – di stare al mondo. Le strutture del thriller sfumano dunque in atmosfere più intime, grazie a una regia piena di primi piani e una scrittura che si cura di costruire nel dettaglio persino la psicologia dei personaggi secondari. I registri narrativi spaziano poi dal comico al grottesco, e se non sempre il racconto eccelle in fluidità, le interpretazioni di Weon Bin e Kim Hye-ja nei panni dei protagonisti bastano a tenere lo spettatore incollato a ogni singola scena. Scene provocatorie, quelle di Madre, che talvolta potranno forse sembra estranee all’estetica occidentale, ma che di certo non mancheranno di interrogarci sul nostro personale modo – più o meno disfunzionale – di vivere i nostri rapporti e il nostro mondo.
Maria Letizia Cilea