Cene piene urne vuote, o quasi. Natale è il periodo in cui i nostri politici, dietro la promessa – in questo caso sempre mantenuta – di luculliani banchetti, radunano le truppe. I sodali, o presunti tali, si ritrovano numerosi in ristoranti e discoteche, si sfidano a suon di mangiate e bevute pantagrueliche, idolatrano (per il ben di Dio ricevuto) il leader di turno, pubblicano tutto su Facebook sperando in qualche strapuntino futuro, poi tornano a casa con la pancia piena, spesso un po’ alticci, e aspettano il prossimo invitante appuntamento elettorale. Funziona così per ogni partito o movimento civico: l’Avvento è il periodo delle grandi promesse, per i politici è tempo di maestosi proclami, «finite le feste si ricomincia a far sul serio, preparatevi perché si vota» è il grido di battaglia, poi però passata la santissima ricorrenza attorno a leader e liderini di tutta questa gente ne rimane metà, a essere di manica larga. Prendiamo i dati delle ultime tre elezioni comunali di Verona. Nel 2007, quando fu un plebiscito per l’allora leghista Flavio Tosi, l’affluenza fu del 76,6%, una delle più altre degli ultimi vent’anni per quanto riguarda le grandi città. Cinque anni dopo, quando Tosi fu riconfermato al primo turno, la percentuale – pur considerevole – scese a 69,6. Il 2017 ha invece certificato l’enorme disaffezione della gente per la nostra classe politica: al primo turno, che ha consegnato al ballottaggio la sfida tra Federico Sboarina e Patrizia Bisinella, l’affluenza ai seggi era stata del 58,8% (quasi 20 punti in meno rispetto a dieci anni prima). Il dato clamoroso però è il misero 42,4 del secondo turno: mai, nella storia di Verona, un sindaco era ytato eletto in tale indifferenza generale. È dunque sempre più lampante la differenza tra l’elettorato reale e quello virtuale, pronto a presentarsi in carne e ossa solo quando è il momento di brindare. I numeri parlano chiaro, ma in fondo agli invitati al desco va bene così. Mangiare e bere a sbafo ha sempre un gusto particolare.