Pare essere una domenica consueta, quella del 19 luglio 1992. Sono quasi le cinque di pomeriggio quando il magistrato Paolo Borsellino si reca a trovare la madre e la sorella nella loro abitazione in via D’Amelio 21, una strada stretta e senza uscita, dalla quale non farà più ritorno.
Nelle ultime interviste, Borsellino si autodefinisce un condannato a morte, consapevole di dover condividere la stessa sorte toccata all’amico e collega Giovanni Falcone, ucciso solo 57 giorni prima. Alla moglie Agnese confida infatti: «Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri».
La morte sopraggiunge alle 16.58, quando viene fatta esplodere una Fiat 126 rubata, contente 90kg di esplosivo, sotto il palazzo in cui abitano Rita Borsellino e Maria Pia Lepanto, rendendo lo scenario un inferno di sangue e fiamme. A perdere la vita il magistrato e gli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. A sopravvivere unicamente Antonino Vullo, che racconta di non aver sentito alcun rumore, nulla di sospetto, poi, all’improvviso, l’inferno di fiamme e carne umana sparsa dappertutto.
Il 24 luglio si svolgono i funerali privati, a cui partecipano 10.000 persone come segno di vicinanza nei confronti della famiglia, la quale aveva rifiutato i funerali di Stato, poiché il governo non era stato in grado di proteggere adeguatamente il loro caro.
Dopo 28 anni, non sono ancora stati svelati i misteri creatisi in quel drammatico momento. Il 30 giugno del 2018 la Corte d’Assise di Caltanissetta definisce l’assassinio del magistrato «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana», un processo lunghissimo che va da Borsellino uno a Borsellino quater. Infatti, nel corso delle indagini vengono più volte accettate le dichiarazioni di pentiti palesemente inattendibili, tra i quali spicca su tutti Vincenzo Scarantino, il quale fornisce versioni differenti alla polizia per oltre vent’anni.
E resta il mistero dell’agenda rossa
Le prime indagini sono infatti guidate dal gruppo investigativo capitanato da Arnaldo la Barbera, il quale obbliga Scarantino a mentire, facendogli raccontare una versione falsa dell’attentato, come verrà confessato nel 2009. Ad oggi, la conclusione dei molteplici processi vede la condanna definitiva di 47 persone, tra cui spiccano 25 ergastoli, come quelli di Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Salvatore Biondino, Giuseppe Graviano, Carlo Greco e Salvatore Profeta.
Oltre al mistero riguardante i mandanti della strage, rimane tuttora irrisolto quello che vede coinvolta la sparizione dell’agenda rossa di Borsellino, taccuino dal quale non si era mai staccato e su cui aveva appuntato molteplici note, in modo particolare dopo la scomparsa di Falcone. Secondo il fratello Manfredi, questi appunti riguarderebbero eventi e fatti di lavori importanti e conterrebbe i nomi dei mandati della strage di Capaci e i soggetti istituzionali responsabili della trattiva Stato-mafia. Lucia, la figlia più grande di Borsellino, afferma di aver visto il padre infilare l’agenda nella sua borsa, il giorno della morte; eppure, nonostante le varie prove (come un filmato dei vigili del fuoco) abbiano dimostrato la presenza dell’agenda sul luogo della strage, le preziose pagine non sono ancora state ritrovate. Manfredi è tuttora fermamente convinto che se l’agenda non fosse andata perduta, le indagini sulla morte del fratello avrebbero preso sicuramente una direzione differente.
Giulia Maria Cavaliere