di Maurizio Battista
Eravamo agli inizi degli anni Novanta quando a Verona cominciarono ad arrivare i primi immigrati dall’Africa. Venivano ancora chiamati extracomunitari. A Palazzo Barbieri era appena stata eletta sindaco Michela Sironi, Forza Italia e si trovò quasi subito alle prese con questa nuova emergenza. Nessuno, non solo a Verona, sapeva cosa fare. Non c’erano strutture per l’accoglienza, non c’erano associazioni che distribuivano un pasto, non si sapeva quale futuro poter dare a questi immigrati, quasi tutti ragazzi scappati dalle guerre. E allora scattò l’operazione di emergenza per questi “moreti” come venivano chiamati a Palazzo Barbieri con un una vena di compassione che non aveva nulla di razzista. Se ne occupò l’assessore ai Servizi sociali, Antonio Pizzoli, una lunga carriera nei boy scout: in pochi giorni allestì con brande e materassi un dormitorio a Castel San Pietro, all’epoca abbandonato e in disuso. Era stato asilo delle suore cappellone, poteva tornare ad essere asilo per gli extracomunitari. Uno slancio di generosità, senza che ci fosse a livello nazionale e locale una politica strutturata per affrontare un fenomeno migratorio che sarebbe diventato non solo costante e duraturo, ma epocale. Perché i motivi per scappare dalle zone povere del mondo in questi decenni non sono cambiati, ma anzi sono cresciuti. Non si scappa solo per la fame, per la guerra, ma anche per i cambiamenti climatici. Non si scappa, come dice qualcuno, perché “là fa troppo caldo”, ma perché i cambiamenti climatici per esempio hanno alzato i livelli del mare e questo ha portato l’acqua salina nei campi che una volta potevano essere coltivati e dare sostentamento e adesso invece sono inutilizzabili. Perché il caldo eccessivo e continuo porta all’impossibilità di coltivare e si perdono i raccolti e parte la carestia. O perché i cambiamenti climatici hanno modificato il regime delle piogge e ai monsoni si sono sostituiti le alluvioni che devastano tutto. Questo vuol dire scappare per il cambiamento climatico. Basta leggere qualche libro di Amitav Ghosh prima di andare a parlare del nulla nei salotti televisivi. Sono passati 30 anni da allora e guardando al presente che cosa è cambiato nell’accoglienza dei migranti? Sono cambiate le politiche per gli immigrati? Poco e nulla. Siamo ancora dipendenti spesso dagli slanci di generosità. Qualche asilo in più, qualche pasto caldo assicurato, attese infinite di mesi per l’enorme burocrazia, poche risposte per un inserimento efficace nel mondo del lavoro. Perché questa lunga e noiosa premessa? Perché tutto si tiene. Perché dopo la tragica morte in stazione del giovane Moussa Diarra, 26 anni, arrivato dal Mali con la speranza di integrarsi, è giusto e doveroso capire che cosa non ha funzionato. Come scrivevamo ieri, per rispondere al fenomeno migratorio, da anni la politica persegue strade, con tutti i governi di tutti i colori, che non stanno portando da nessuna parte, nemmeno in Albania. E allora la risposta qual è? Da dove arriva? Cosa fare? Ma soprattutto a cosa stiamo andando incontro?
Si preferisce sempre fare propaganda. I flussi maggiori vanno al settore agricolo. Basterebbe guardare a ciò che ha fatto la Germania
Lo spiega molto bene l’ultimo rapporto di Confindustria nazionale, non stiamo parlando di una organizzazione eversiva o traghettatrice di migranti, ma della principale associazione imprenditoriale italiana che crea lavoro, produce ricchezza, promuove lo sviluppo economico. Bene, Confindustria ha lanciato un allarme chiaro, numeri alla mano. Il Paese ha bisogno di forza lavoro. L’inverno demografico continua, le nascite calano del 3 per cento ogni anno. E anche se si invertisse la tendenza, comunque prima che un neonato di oggi diventi forza lavoro passano almeno 18 anni. E nel frattempo? Nel frattempo il Paese rischia di fermarsi. Anche perché dal 2011 al 2023 se ne sono andati all’estero 550 mila giovani italiani come dice uno studio della Fondazione Nordest. Un Paese che si svuota. Per questo, scrive Confindustria nel rapporto “I nodi della competitività, la crescita dell’Italia tra tensioni globali, tassi e Pnrr”, il Paese ha bisogno di lavoratori. Dove trovarli? La risposta deve venire dall’immigrazione, che deve trasformarsi da problema ed elemento di propaganda elettorale a risorsa per la nostra economia. Servono, scrive Confindustria, 120 mila lavoratori stranieri per ciascuno dei prossimi 5 anni. In totale, vanno introdotti nel sistema economico del Paese 610 mila lavoratori, perché nel prossimo futuro ne mancheranno all’appello oltre un milione. Non a caso sono le stesse Confindustrie di territorio a organizzare corsi di formazione per preparare personale straniero all’inserimento in azienda o in fabbrica. Basta percorrere le nostre strade statali per vedere quanti cartelli ci sono appesi fuori dalle aziende per ricerca di personale qualificato. Non è che si deve riempire l’Italia di immigrati, ovviamente, ma sicuramente la politica migratoria deve fare una inversione a U, deve in fretta cambiare traiettoria di 180 gradi: ingressi sicuri, selezione e formazione del personale, inserimento nel mondo del lavoro, prospettive di integrazione. Esempi ce ne sono, basta guardare cosa ha fatto la Germania con i siriani proprio per risollevare l’economia e il Pil. “A parità di tasso di occupazione, l’offerta di lavoro tra 5 anni si ridurrà di 520mila unità”, si legge nel rapporto di Confindustria nazionale. “Una modesta crescita economica (del 4,9% cumulato nel 2024-2028) implicherebbe un fabbisogno di occupazione aggiuntiva di circa 815mila unità. Il mismatch, quindi, potrebbe ampliarsi di 1,3 milioni unità nel 2028. Difficile pensare di compensarlo con il solo aumento del tasso di occupazione, che dovrebbe salire di 3,7 punti percentuali. Assumendo un aumento del tasso di occupazione di due punti (obiettivo più verosimile sull’arco di un quinquennio), mancherebbero ancora 610mila unità che dovrebbero essere reperite con un ampliamento degli ingressi di lavoratori stranieri di circa 120mila unità in più all’anno, se si vuole evitare che la disponibilità di lavoratori limiti la crescita dell’attività economica”. Dove intervenire? Confindustria risponde: “Costi di alloggio troppo elevati rispetto a produttività e quindi salari, nelle diverse aree territoriali, frenano la mobilità dei lavoratori. I costi di alloggio sono un fattore chiave nella decisione di trasferirsi per lavoro in un’altra area geografica. In un mercato ideale, i costi di alloggio dovrebbero essere proporzionati al livello di produttività della regione e quindi ai salari medi. Prezzi delle case troppo alti rispetto alla produttività, anche in zone ad alta domanda di lavoro, creano una barriera per i lavoratori che potrebbero trasferirsi in tali aree”. E la previsione di 120 mila lavoratori stranieri in più da inserire ogni anno nel sistema produttivo italiano si deve considerare in aggiunta alle quote di flussi già previsti e che vanno per la maggior parte nel settore agricolo. La politica saprà rispondere con soluzioni concrete per evitare che l’economia del Paese si fermi o si preferirà ancora la propaganda elettorale?
MB