“Ricordati di me, mio capitano. Cancella la pistola dalla mano. Tradimento e perdono fanno nascere un uomo. Ora rinasci tu. Quel sorriso sgomento anche se vinto. Non mi tormenta più”.
Così recita Venditti in Tradimento e Perdono, la canzone dedicata ad Agostino Di Bartolomei, calciatore tra le altre di Roma e Milan dal 76’ all’87’. Una carriera iniziata a tirar calci al pallone sui campetti per le strade del suo quartiere, Tor Marancia, a Roma. Da lì a poco, a tredici anni compiuti, l’approdo nel vivaio della squadra della capitale, fino ad esordire appena diciottenne in Serie A nella stagione 1972/73.
Soprannominato “Ago” o “Diba”, a Roma l’allenatore Nils Liedholm lo inventò nel ruolo di libero, un frangiflutti davanti alla difesa in grado di scardinare gli attacchi avversari senza farli avvicinare minacciosamente alla porta. Insieme al compagno Vierchowod creò una coppia vincente che fece le fortune dei giallorossi, culminando nello scudetto tricolore del 1983, il secondo della Roma a 41 anni di distanza dal primo titolo.
Con la fascia di capitano al braccio sfiorò un anno dopo, il 30 maggio 1984, il trionfo in Coppa dei Campioni, perdendo solo in finale, la prima e unica nella storia del club capitolino, ai rigori allo stadio Olimpico contro il Liverpool (Di Bartolomei il suo lo segnò).
Un giocatore dal carattere riservato e profondo, lontano dai canoni del calcio di oggi patinato, tutto soldi e immagine. Di Bartolomei preferiva di gran lunga far parlare i suoi piedi e la sua testa, la serietà professionale e l’onestà, perché come dichiarò ai microfoni della Domenica Sportiva dopo un diverbio avuto in campo con Graziani: “Sono solo un uomo tranquillo. E un bravo ragazzo”.
Un bravo ragazzo però con un male dentro. Dopo 18 anni di professionismo la dura scelta di appendere gli scarpini al chiodo, per trasferirsi in Campania a Castellabate nel paese d’origine della compagna Marisa, e godersi la famiglia e l’amore dei figli. Proprio con la pistola che acquistò con l’intento di proteggere la sua famiglia, il 30 maggio 1994, dieci anni esatti dopo la serata amara della finale persa in Coppa dei Campioni, decide di mettere fine a 39 anni alla sua vita, puntando l’arma al petto. Un gesto drastico che esprimeva tutto il suo sconforto.
Scriverà così nella lettera d’addio: “Io, Agostino Di Bartolomei, se prendo un impegno vado anche nel fuoco per mantenerlo. Forse si tratta solo di avere pazienza come mi ripete Bruno (Conti ndr) continuamente. Ma il tempo passa e tutti i miei progetti si stanno sgretolando come castelli di sabbia davanti ai miei occhi. Mi sento chiuso in un buco. E il pallone, il mio adorato pallone, è sempre più lontano…”.
Jacopo Segalotto