E Gelindo correva, correva, correva. Nei ritagli di tempo, correva e sognava. faceva il geometra, “…ma prima o dopo vedrai che trovo la strada”, pensava tra sè e sè. Tra una corsa e l’altra. un allenamento e l’altro. Rubando tempo persino ai sogni. cercando di vedere oltre la linea dell’orizzonte. “Mi piaceva fare il geometra, questo sì. Ma era come se non mi bastasse, se cercassi di andare oltre e quello lo potevo fare solo io, non dipendeva dagli altri”. Gelindo correva, eccome se correva. Mattina e sera, poi la domenica le “non competitive”, che per lui diventavano come le Olimpiadi. Correva e vinceva, “…ma tanto, ormai il lavoro ce l’ha, non uscirà mai da questi confini”, pensavano tutti. Lui no. “A 24 anni, presi la decisione della mia vita. Mi licenziai. Sì, rinunciai al posto fisso, allo stipendio fisso, per inseguire un sogno. In quel momento, fui fortunato ad avere un datore di lavoro che mi capiva. Mi disse: Gelindo, vai, coltiva i tuoi sogni. Se non ce la farai, sai che qui un posto ci sarà sempre per te”. Gelindo andò. Ora correva verso un traguardo preciso, anche se non sapeva se sarebbe mai arrivato. Quando sarebbe arrivato. “Fu quello il momento in cui cambiò la mia vita. Non sapevo se avevo fatto bene o male, ma sapevo di doverlo fare”. Il geometra Bordin divenne Bordin l’aspirante campione. Correva e vinceva, non solo le “non competitive”. “Quando cominci ad allenarti veramente, a pensare davvero solo all’atletica, a viverla come il tuo presente e il tuo futuro, allora ti senti diverso. Allora capisci che ce la puoi fare, che gli altri non sono più forti di te, che soffrono come te”. E Gelindo corse, finalmente dentro il sogno. Era il 2 ottobre 1988, le Olimpiadi di Seul. l’ultima gara, perchè la maratona chiude sempre i Giochi più belli. Più veri. Gelindo corse, anzi, volò, verso il trionfo. Quell’immagine, lui che entra in pista, lui che guarda la folla, lui che alza il pugno, lui che ha gli occhi spiritati e felici, lui che ripassa in quegli attimi tutta una vita, prima di inginocchiarsi e baciare la pista. Prima dell’abbraccio con Gigliotti, il suo allenatore. Prima di passarsi le mani sulla faccia e pensare, “…mamma mia che cosa ho combinato?”. Prima di infilarsi al collo la medaglia d’oro, sentire l’inno di Mameli, vedere la bandiera tricolore andare più in alto di tutte. In quel momento, Gelindo Bordin capì di aver scelto la strada giusta. Capì di non avere sbagliato a lasciare la scrivania, i calcoli statici e tutto il resto. Capì di essere il più forte di tutti. E insegnò a tutti che vale la pena, sempre, inseguire i propri sogni. Anche quando non sai dove cominciano e non sai dove finiscono. Il sogno di Gelindo non finirà mai. Raffaele Tomelleri