Maschera per nascondersi e rivelare. Papà del Gnoco simbolo di libertà dagli obblighi sociali Il rito del Carnevale ha origini molto antiche e racconta degli scambi tra servi e nobili

Ritorna a Verona il “Bacanàl del Gnoco”, tradizionale Carnevale cittadino giunto quest’anno all’edizione numero 493. Partito a inizio febbraio con il “Re de la Stanga”, il lungo cartellone di incontri ci accompagnerà per molti mesi con rievocazioni storiche e iniziative che prevedono, le sfilate nei quartieri, il grande corteo del “Venerdì Gnocolar”, la “Cavalcata Tomaso da Vico”, il “Martedì Grasso”, la “Festa della Renga”, il “Maccheronicum Convivio”. Il rito del Carnevale ha origini molto antiche e racconta degli scambi di ruoli e vestiario tra servitori e nobili come una modalità condivisa, controllata e socialmente accettata per far emergere fantasie e aspirazioni spesso inespresse. Il fulcro di questa consuetudine era e rimane il temporaneo “mascheramento” vissuto come evasione dalle incombenze giornaliere e dalle gerarchie nonché occasione divertente per rendere ogni scherzo lecito. All’esuberanza e alla trasgressione dall’ordine precostituito segue, alla fine del gioco, il ritorno alle consuetudini. Nella nostra città le celebrazioni del Carnevale affondano le loro radici nel Medioevo e ci parlano sì di festa ed evasione ma anche di carestia e povertà. Il racconto popolare lega la nascita del famoso “Venerdì Gnocolar” alla generosità del nobile Tomaso da Vico che, preoccupato per l’indigenza dilagante a Verona e a causa delle rivolte in corso nel quartiere di San Zeno, il venerdì prima della Quaresima organizza la distribuzione gratuita di gnocchi, burro, formaggio e vino. Nasce proprio in quell’occasione, diventata in seguito tradizione, il “Papà del Gnoco”, simbolo del Carnevale veronese. Il suo costume, confezionato in broccato da sartorie specializzate, è un manufatto creato con abilità manuali e artistiche, ricco di dettagli visivi che rinviano a precise allegorie, dal cappello che ricorda il palco allestito in piazza San Zeno per distribuire gli gnocchi, allo scettro a forchetta denominato “piron”, ai 12 campanelli sonanti per gamba, all’imbottitura a forma di gnocco sulla schiena. Il rubicondo e barbuto Papà del Gnoco diventa così, almeno in alcune occasioni dell’anno, un emblema di divertimento e libertà dagli obblighi sociali. Il suo mascherarsi ci svela una fondamentale duplicità: il nascosto e il visibile. L’elemento nascosto è la figura umana che decide di indossare un “costume” per celare la sua vera identità. L’elemento visibile è un’alternativa da mostrare, un volto e un mondo “altro”, artificiale, insolito che probabilmente rivela il sogno di condizioni e ruoli sociali diversi da quelli realmente vissuti. Indossare maschere ci consente di rafforzare ritualità collettive finalizzate a rendere evidenti desideri impossibili e situazioni altrimenti non rappresentabili. Coprirsi per nascondersi ma anche per svelarsi suggerisce il superamento evidente di un limite, l’introduzione a un “altrove” misterioso e fantastico, l’abolizione temporanea di barriere e diventa strumento di trasmissione del sapere tradizionale. La teatralità della situazione segnala all’occhio umano zone di confine, possibili trasformazioni e transizioni, contraddizioni del nostro quotidiano in un gioco di sovrapposizioni e forme fantastiche che rendono esplicite le possibili intercambiabilità delle nostre vite. La maschera può aiutare le persone a trasformarsi in un personaggio diverso, comico o tragico, che incarna regole comportamentali e ruoli sociali palesemente lontani da quelli abituali. Il rituale carnevalesco, in ultima analisi, può essere concepito come uno strumento di comunicazione, anche visiva. Una sorta di schermo simbolico sul quale riflettere la transitorietà della nostra condizione umana che generando un paradossale bisogno di gettare la maschera ci chiede, invece, di indossarla.

Chiara Antonioli