«Giocare un calcio semplice, è la cosa più difficile» ripeteva Johan Cruijff, uno che all’evoluzione del gioco del pallone qualcosina ha dato. Ma se c’è un allenatore cui la cosa è sempre riuscita, questi non può che essere Osvaldo Bagnoli. Poche ciacole, niente alchimie né proseliti. Lavoro tanto, almeno quanto il buonsenso. L’uomo qualunque con la tuta operaia che firmava capolavori (il primo, la salvezza del Rimini nel lontano 1978, fu lui stesso a definirlo tale, poi venne la promozione col Cesena nel 1981), e che l’apogeo lo toccò a Verona e a Genova, sponda Grifone. E allora Verona-Genoa di lunedì sera, non può che essere una di quelle partite che ti aprono il cuore nell’album dei ricordi. La “sua” partita. A Verona Osvaldo Bagnoli significa l’Europa, le finali di Coppa Italia, lo scudetto, un ciclo mirabolante che giunse ai titoli di coda nel maggio del 1990 quando alla guida di una squadra raffazzonata, messa su in fretta e furia senza più il becco di un quattrino, arrivò a sfiorare una salvezza impossibile. Ci fosse riuscito, sarebbe stato l’ennesimo miracolo.
Pensi a Bagnoli e te lo vedi il 12 maggio del 1985, nel tripudio di Bergamo, quando Giampiero Galeazzi lo avvicinò così «E adesso, caro Bagnoli, non dirmi che no te lo meriti!»; lui prese a balbettare e se ne venne poi fuori con un «Mahhh…ce lo meritiamo tutti».
«Con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così che abbiamo noi, che abbiamo visto Genova» cantava Paolo Conte. E allora se c’era un posto dove andare, quando a Verona il posto non c’era più, era proprio tra i camalli sotto la Lanterna. Per lui, operaio nell’animo, nato e cresciuto alla Bovisa, un quartiere del popolo. A Verona il suo tempo era finito con quella maledetta retrocessione del 1990: fosse stato per lui, sarebbe rimasto per la risalita ma i gentiluomini della Invest, gente che dispensava promesse di Grandeur e ostentava opulenze in doppio petto dai bottoni dorati, cravattoni regimental e sedili in pelle su macchinoni fiammeggianti, gli diedero il benservito. Sappiamo sin troppo bene come la storia andò purtroppo a finire. Il miracolo lo fece Eugenio Fascetti, un viareggino di quella stessa pasta dell’Osvaldo, riportando subito la squadra in A, mentre i libri contabili stavano in tribunale.
Chiamato da Aldo Spinelli a Genova, per Bagnoli l’inizio non fu affatto facile, ma giorno dopo giorno con pazienza riuscì a dare alla squadra la sua impronta. E i risultati non tardarono ad arrivare: l’Europa raggiunta grazie al quarto posto il primo anno, rappresentava il miglior risultato mai conseguito dal Grifone nel dopoguerra. E questo nel 1991, quando l’altra metà della città festeggiava lo scudetto. Ma il meglio quella squadra lo diede l’anno seguente: pur faticando, e non poco, in campionato, l’Osvaldo regalò alla tifoseria una notte al cui solo ricordo ancora oggi a qualcuno da quelle parti gli occhi si fanno lucidi: la vittoria nel tempio di Anfield, a Liverpool nei quarti di finale di Coppa Uefa. La cavalcata si arrestò poi in semifinale al cospetto dell’Ajax di Van Gaal, ma quella notte di Anfield, rimane un capolavoro per i posteri. Uno dei tanti, forse l’ultimo che l’omino taciturno dal cappello di velluto e il pastrano lasciò in eredità a un calcio che di lì a poco non avrebbe più fatto il caso suo.
Elle Effe
Home La Cronaca di Verona Lui e la favola dello scudetto. Lui e quella notte all’Anfield. Osvaldo,...