Il vasto e complesso programma di occidentalizzazione e secolarizzazione a tappe forzate che Mohammad Reza Pahlevi volle imprimere all’Iran entrò in rotta di collisione con la cultura tradizionale e alienò le simpatie per il regime di una parte consistente degli iraniani. La Rivoluzione bianca appariva come una sfida diretta all’influenza e alle convinzioni dei religiosi e, durante le rivolte del 1963, spinse i leader religiosi islamici a prendere posizione contro lo shah. Uno degli ayatollah, il sessantatreenne Ruhollah Khomeini, si rivolse direttamente a Mohammad Reza e lo accusò di compromettere l’islam e la sovranità dell’Iran: “Uomo abietto e miserabile, sono passati quarantatré anni della tua vita. Non è forse venuto il momento di riflettere un po’, di chiederti dove tutto questo ti sta portando […]? Non sai se un giorno la situazione cambierà, e nemmeno se coloro che ti circondano ti resteranno amici. Sono amici del dollaro. Non hanno religione, non conoscono lealtà.” La risposta immediata dello shah al duro monito fu l’immediato esilio, prima in Turchia, poi in Iraq e infine a Parigi. Nei quattordici anni di esilio, l’ayatollah Khomeini, che fino a quel momento si era occupato di misticismo islamico, si fece propugnatore dell’islam politico, ispirandosi all’egiziano Sayyid Qutb, ma anche alle teorie organizzative promosse dagli oppositori di sinistra al regime dello shah. Khomeini maturò la convinzione che l’Iran avesse bisogno di un movimento rivoluzionario islamico, che mirasse al rovesciamento della monarchia per istituire una repubblica islamica fondata sulla shari’a (la legge islamica) e guidata da religiosi di professione. Egli sosteneva che “la differenza fondamentale tra un governo islamico e la monarchia costituzionale o la repubblica è che, laddove i rappresentanti del popolo o il monarca in certi regimi si impegnano a legiferare, nell’Islam il potere legislativo e la facoltà di stabilire le leggi appartiene soltanto a Dio Onnipotente.” Per i paesi musulmani, osserva lo storico Arne Westad, accettare uno Stato laico – qualunque sia la sua forma giuspolitica – equivaleva “a un sacrilegio e, sotto certe circostanze, poteva rendersi necessaria una guerra santa – il jihad – contro gli infedeli per liberare le popolazioni musulmane.” La dottrina politica di Khomeini, annota Henry Kissinger in un recente saggio, prospettava una forma stato che in Occidente non era più praticata dai tempi delle guerre di religione dell’età prewestfaliana.
*Romeo Ferrari, docente di storia e filosofia