“È tutto davanti a questi occhi”. Lo ripete Sami Modiano, 92 anni, sopravvissuto al campo di sterminio di Birkenau: nel corso di ogni incontro con gli studenti del Liceo, in ogni occasione istituzionale in cui porta la sua testimonianza e anche nell’intervista telefonica che ci ha concesso. Un’intervista senza filtri e straziante.
Rodi è stata la cornice dell’infanzia di Sami Modiano, un’infanzia vissuta nel rispetto e in una fratellanza “che forse oggi non c’è più – spiega – un ricco non si metteva a tavola se il povero non aveva da mangiare”.
Sami aveva appena compiuto 14 anni quando fu prelevato, con l’inganno, dall’Isola di Rodi, assieme al padre e alla sorella e portato a Birkenau. La madre era deceduta un anno prima, per crisi cardiache. “Era stato un enorme dolore, ma dopo aver visto quello che è successo a me, a mio padre e a mia sorella, io ringrazio il Padre Eterno di essersela presa con sé… almeno ho una tomba per andare a pregare per lei”, racconta.
Se dovesse racchiudere la sua terribile esperienza in un ricordo quale sarebbe?
Ogni giorno ha avuto una storia. Penso al momento in cui ci hanno denudati, rasati, tatuato un numero sul braccio e fatto capire cosa fosse la vergogna, levandoci la dignità. Non ero più Samuel, ero il numero B7456. Non ero più una persona, ero solo un condannato a morte.
Quando siete giunti a Birkenau?
Il 16 di agosto del 1944, dopo un mese di viaggio con tante difficoltà, durante il quale siamo stati trattati come bestie e siamo stati tenuti in condizioni disumane e vergognose.
Quanti anni aveva?
Ero un ragazzo di 13 anni e mezzo. Prima vivevo a Rodi insieme alla mia grande famiglia, la Comunità Ebraica di Rodi, e la mia intima famiglia, composta da 50 persone, fra parenti, zii e cugini, da parte di papà e di mamma. Li ho persi tutti. Sono rimasto solo io. Della comunità di Rodi si sono salvati solo 21 uomini su 2000 persone più o meno.
Mi racconta di sua sorella?
Era una carissima ragazza, umana, intelligente: l’orgoglio di mio papà e mio. Quando ho perso mia mamma a Rodi, lei si è dedicata a me, facendomi da mamma e da sorella. Mi sono affezionato molto a lei. La sua perdita è stata uno dei fatti più terribili.
Il ruolo materno di sua sorella si è palesato fino all’ultimo istante, quando le ha ceduto la sua razione di cibo…
Sì, in quell’occasione non abbiamo parlato con le parole, ma con i gesti, che erano meglio delle parole. Tra le lacrime facevo fatica a vederla e sapevo che forse era l’ultimo momento in cui l’avrei vista. Non la riconoscevo più in quella figura, ma solo in quel suo gesto di tenerezza. Questi gesti rimangono nei miei occhi, nei miei pensieri, nei miei incubi. Non c’è una spugna per cancellare.
Sette mesi dopo, rispetto al suo arrivo a Birkenau, durante la “marcia della morte”, è caduto ed è stato soccorso…
Esatto… ci hanno risparmiato la morte perché ci volevano far soffrire ancora e sperimentare la fame, il freddo, il dolore e la sofferenza. Ci facevano vedere la morte, ma non ce la concedevano. E lì ho ricevuto un gesto bellissimo.
Quale gesto?
Pesavo solo 25 chili, non riuscivo più a proseguire la marcia. Sono caduto a terra, aspettando il mio colpo di grazia. Gli ordini erano precisi: non dovevano lasciare in vita nessuno che potesse parlare e testimoniare. Due prigionieri come me, due angeli custodi, che forse avevano un briciolo in più di forze, mi hanno trascinato per qualche metro e poi mi hanno appoggiato su altri cadaveri, per non farmi dare il colpo di grazia.
E poi?
Agonizzavo tra la vita e la morte. Mi sono risvegliato da questo incubo di morte, ho visto il sorriso di una dottoressa russa, che ha fatto i salti mortali per salvarmi. Poi, ho incominciato a ragionare e a sentirmi in colpa. Io non volevo essere là, ma dall’altra parte, con quelli che avevo lasciato. “Perché io sono stato salvato?”, mi chiedevo. Ho proseguito sempre con questi punti interrogativi che mi hanno tormentato tutto la vita.
Come è riuscito a metabolizzare il dolore in questi anni? In cosa lo ha trasformato?
Io ho vissuto tutta la mia vita in silenzio, con questi punti interrogativi, senza risposta. Nei miei incubi e depressioni vedevo tutte le scene di questi sette mesi. Finalmente nel 2005 un amico, un fratello, che ho conosciuto nei campi di sterminio, Pietro Terracino, ha insistito che io dessi la mia testimonianza come aveva fatto Primo Levi. Ma io mi rifiutavo perché temevo che i ragazzi non mi avrebbero creduto. E per non ricevere un dolore doppio, evitavo.
Cosa le ha fatto cambiare idea?
Dopo insistenza di mia moglie ho deciso di provare e dopo 60 anni sono tornato a Birkenau, con 300 studenti delle scuole superiori di Roma. Appena ho messo piede là, mi sono ritrovato davanti ai miei occhi mia sorella e mio papà. Non era cambiato assolutamente niente. Io parlavo e piangevo. Dietro di me avevo 300 studenti che mi seguivano e piangevano come me. Ed ecco che mi sono detto: “questo è il motivo per cui non sono stato sterminato, perché io devo parlare, devo fare in modo che si sappia, per non dimenticare”. E da allora non mi sono più fermato. Vado avanti fin quando posso, perché questa è stata la risposta. Il riscontro dei ragazzi. Ho promesso a loro di non dimenticare.
Cosa prova oggi?
Io non porto rancore e odio e non ho mai condannato nessuno. Se c’è qualcuno che deve pagare, ci sarà qualcuno che giudicherà. Non sarò io.
E guardando al futuro delle nuove generazioni, cosa vede?
Oggi, per esempio, sto parlando con lei che, in quanto giovane, è la speranza del domani e sta cercando di raccontare qualcosa che servirà ai giovani. Anche lei ha sentito un sopravvissuto. E farà in modo che domani non succeda mai più. Lei e i suoi figli non dovranno vedere ciò che ho visto io.
Stefania Tessari