Da una piccola azienda familiare ad arrivare ai 16 dipendenti attuali, con tre punti vendita (in centro a Verona, a Borgo Trento e a Villafranca) più il laboratorio: è questa in sintesi la storia della Pasticceria Miozzi, un marchio di qualità in città e provincia. Ma in tempi di pandemia, nessuno si salva.
Così il 12 marzo scorso arriva la chiusura come imposto da decreto con tutte le conseguenze del caso, soprattutto in un settore come quello dolciario dove oltre al danno economico per il mancato fatturato, irrompe anche il deperimento delle materie prime. “Per noi l’impatto immediato è stato traumatico”, – spiega Marco Miozzi, il titolare – “perché la chiusura ha compromesso tutto ciò che riguarda le lavorazioni artigianali, dalla preparazione dei lieviti che necessitano di 3-4 giorni a tutte le varie fasi della pasticceria. La difficoltà maggiore sta nel mantenere e poi recuperare il Dna dei nostri prodotti, caratterizzati da determinati gusti”.
Una grave perdita soprattutto sotto il periodo di Pasqua, quando a farne le spese è stata la grande produzione di colombe e uova di cioccolato: “La preoccupazione è stata quella di abbandonare la nostra clientela, quasi d’élite, che pretende un certo tipo di prodotto differente rispetto al mercato tradizionale. Però siamo riusciti in qualche modo a salvare la Pasqua, riunendoci in famiglia, tra fratelli, rimboccandoci le maniche e svolgendo da soli tutte quelle lavorazioni che normalmente sono compito dei dipendenti.
Abbiamo percorso km su km per riuscire a servire i nostri clienti tra Brescia, Vicenza e Padova, grazie al passaparola e ai social, anche se siamo arrivati a una commercializzazione del 30% rispetto alla normalità”.
Come se non bastasse, se le pasticcerie non hanno potuto aprire poiché dolci e affini non rientravano nei beni di prima necessità, alla grande distribuzione era invece permessa la vendita di prodotti dolciari, generando così una dura concorrenza per l’intero settore. “Con grande disappunto”, – prosegue Marco – “noi siamo stati completamente tagliati fuori dalle decisioni politiche, con le grandi catene che riuscivano comunque ad avere delle produzioni interne. Questo ha deteriorato un aspetto commerciale costruito nel tempo: se prima si acquistava in pasticceria una torta fatta con dei prodotti di un certo livello, adesso avendo meno disponibilità economica si andrà a prenderla al supermercato. La crisi farà sì che la produzione pasticcera dovrà patire prima di poter tornare a competere sul mercato”.
Ora c’è da affrontare la fase 2, ma la ripresa si prospetta ancora lunga, consapevoli che per 5-6 mesi non si avranno più gli stessi introiti: “Se prima avevamo un’ottica di crescita, ricerca e innovazione, adesso l’unica prospettiva aziendale sarà quella della spending review, ovvero riuscire a compensare le spese. Questa riapertura per noi è solo una fase pubblicitaria, sappiamo già che lavoreremo al 40% rispetto a prima, non potremo mantenere tutto il personale o un certo tipo di servizio che faceva la differenza rispetto al grande mercato. Con due pasticceri che lavorano dalle 3 di mattina per fare le brioches, preparare l’impasto già il giorno prima, allestire un banco di pasticceria e servire un caffè fresco e di qualità, non so quanto ne valga la pena”.
Jacopo Segalotto