L’indovinello veronese spiegato da una studentessa del 1926

Era il 1924, un secolo esatto fa, quando nella Biblioteca Capitolare uno studioso toscano, il paleografo e storico Luigi Schiapparelli, per caso, nel codice 89 ha scoperto quello che è ritenuto “l’atto di nascita” della lingua italiana: l’indovinello veronese.
Schiapparelli ha studiato subito la provenienza del manoscritto che conteneva l’Orazionale Mozarabico, un libro di preghiere liturgiche, scritto in Spagna per la chiesa di Toledo, in scrittura minuscola visigotica dell’VIII secolo, giunto in riva all’Adige, nello stesso secolo, dopo essere passato per Cagliari e Pisa. L’aggettivo arabo mozarabico fa riferimento ai cristiani spagnoli che nell’altomedioevo vivevano sotto il dominio arabo.

L’indovinello veronese: cosa dice

Ma più che le preghiere mozarabiche al filologo interessava il recto del foglio 3, dove uno scrivano veronese, forse per provare la sua penna, aveva scritto in scrittura corsiva dell’ottavo secolo: “Separeba boves, alba pratalia araba, albo versorio teneba et negro semen seminaba”. Questi versi, pubblicati dal paleografo in una rivista specialistica, divennero subito famosi fra gli studiosi: si parlava di Ritmo veronese o di Indovinello veronese.
Tradotto nell’italiano odierno, dice: “Conduceva avanti  i buoi, arava i bianchi prati, teneva un bianco aratro e seminava la nera semente”.

Significato e curiosità

Cosa significava? A scoprirlo, due anni dopo, nel 1926, una studentessa di lettere dell’Università di Bologna al primo anno di studi.
A raccontarlo è stato il suo professore, il filologo Vincenzo De Bartholomaeis, docente di letteratura italiana, che in una lezione aveva rivelato la scoperta di Schiapparelli: “la signorina” Liana Calza da Borgo San Donnino (oggi è Fidenza), andò da lui, titubante perché temeva di fare brutta figura, dicendogli che quei versi le ricordavano un umile indovinello di quando era bambina dove si parlava di prato bianco e di seme nero, intendendo che il prato bianco era la carta da scrivere e il seme nero l’inchiostro.
“La giovane”, ha scritto De Bartholomaeis, “si mostrava tutta timorosa di aver detto una sciocchezza: ella invece aveva colto nettamente nel segno”. Facile poi dedurre che i buoi erano le dita, l’aratro la penna. Ecco svelato il mistero!
I maggiori linguisti italiani hanno studiato quelle parole che non sono più latino: lo si nota soprattutto dal fatto che sono cadute tutte le desinenze dei verbi, qualche vocabolo ha mutato forma fonetica e si sono chiusi i dittonghi. Era nata la nuova lingua volgare italiana.
Intanto la giovane Liana superò l’esame brillantemente con De Bartholomaeis e si laureò in lettere nel 1930, con una tesi sulla poesia realistica delle origini. Di lei non si sa altro.