Nel gergo comune si usa ancora oggi adoperare espressioni che si riferiscono a un non meglio precisato orizzonte di pensiero “razziale”: un giocatore di razza, razza di idiota, e così via. Sebbene, naturalmente, chi usa queste espressioni non necessariamente si fa portatore di tesi razziste – anzi, probabilmente quasi mai –, la presenza di questi termini è indicativa della permanenza di un sottotesto culturale che tende, più o meno inconsciamente, a radicare le differenze positive o negative su un terreno profondo, quale è quello della razza.
A costo di cadere nel pedantismo, è utile puntualizzare quanto sia scorretto adoperare quel tipo di linguaggio comune: nel suo bel libro L’invenzione delle razze, di cui si consiglia la lettura, il genetista Guido Barbujani conclude riportando la celebre frase di Nanni Moretti «chi parla male, pensa male e agisce male».
Il linguaggio non è soltanto uno strumento espressivo del pensiero, sebbene questa funzione sia dirimente; esso retroagisce anche sul parlante stesso, in quanto si costituisce come entità quasi autonoma che veicola, tramite il lessico e le strutture sintattiche, un bagaglio culturale e un modo di pensare che caratterizza la comunità.
Tanto più questo deve indurre a riflettere nel contesto italiano, nel quale è ancora terribilmente recente il tentativo di adeguare il trattamento legislativo a seconda della “razza” dei cittadini. Varrebbe la pena tenere a mente che la rivista La difesa della razza e il Manifesto degli scienziati razzisti si collocano a meno di un secolo da noi: un intervallo che, da un punto di vista storico e, soprattutto, di modificazione della cultura, non è così ampio come può sembrare.
Certo, quell’orrendo tentativo non è isolato, né è un’invenzione italiana, ma si radica in una tendenza diffusissima a partire dall’Ottocento che conduce a una vera e propria smania razziale: a tentativi numerosissimi e costanti di individuare e catalogare le presunte diverse “razze” umane, che costituiscono il terreno per le teorie razziste novecentesche e soprattutto alla loro messa in pratica disumana e omicida.
Come è ormai acclarato in molti studi – e il libro di Barbujani riassume la questione –, l’espressione “razze umane” non ha alcun significato, nel senso che non denota nulla, non corrisponde ad alcuna realtà biologica o antropologica: da un punto di vista genetico, per molte ragioni, non siamo autorizzati a parlare di razza applicata all’essere umano, e questo basta, poiché “razza” è, appunto, una categoria scientifica; d’altra parte, anche il fatto che non si riesca, neppure oggi, ad accordarsi persino sul numero delle eventuali razze umane costituisce una prova forte della loro inconsistenza.
Le razze umane non esistono. Eppure, se capitasse di osservare qualche inseguimento operato dalla polizia statunitense, ci si accorgerebbe che le indicazioni sul sospetto vengono date secondo una scansione di questo tipo: individuo caucasico, ispanico, africano, e così via. Questo senza tenere conto del fatto che, per esempio, individui dalla pelle nera si trovano in Africa, come nel Sud-Est asiatico, come in America del Sud, come in Europa: sarebbe, forse, il caso di adattare il nostro linguaggio e, quindi, di raffinare il nostro pensiero.
Elleemme