Crescita educativa e qualità della vita
Dall’1 luglio, su nomina del vescovo Domenico, la Caritas diocesana veronese ha come direttore don Matteo Malosto. Nato 39 anni fa a Bovolone, don Malosto ha conseguito la maturità classica al liceo Maffei nel 2004 e la laurea in Scienze giuridiche all’Università di Verona nel 2009. Ordinato presbitero nel 2014, è stato subito nominato vicario parrocchiale a Nogara. Dal 2019 è referente del Servizio tutela minori e persone vulnerabili e dal 2022 direttore del Centro pastorale adolescenti e giovani. Incarichi che manterrà, affiancandoli al nuovo compito. Don Malosto ha già collaborato con la Caritas diocesana di Verona, in particolare con Casa Madonna di Guadalupe di San Massimo (che ospita giovani richiedenti asilo) e con l’ufficio Young Caritas, per il coordinamento delle attività giovanili della Diocesi.
Don Malosto, quando è nata la sua vocazione?
“Il primo passaggio di vita importante è stato quello di arrivare a un’esperienza di fede, quando ero ancora alle scuole superiori e frequentavo la parrocchia del mio paese. La vocazione è nata durante l’Università, anche se ho fatto comunque la scelta di finire il percorso di studi, che era già avanti”.
Un anno e mezzo fa un’esperienza impegnativa: un trapianto di rene…
“Che ho vissuto con grande serenità, sapendomi in buone mani: sono stato operato a Borgo Trento dall’équipe del dottor Boschiero, e sono ancora seguito dal Centro Trapianti dell’ospedale. Un’esperienza che mi ha dato la consapevolezza della fragilità, che è qualcosa che ci riguarda tutti: non siamo fatti per farcela da soli. La malattia insegna a relativizzare tante cose che consideriamo fondamentali, ma che importanti non lo sono. A me ha dato anche una crescita forte nel mio cammino di fede. E la testimonianza che un trapiantato non è un malato, ma una persona che può condurre una vita assolutamente normale”.
Ho visto da una foto che lei pratica l’arrampicata!
“No, solo qualche ferrata. Mi piace andare in montagna”.
A neanche quarant’anni, l’incarico di gestire una realtà complessa come la Caritas…
“Un incarico importante, non dal punto di vista qualitativo, ma proprio come peso di lavoro. Lo stile che cerco di avere, come negli altri compiti che svolgo per la Diocesi, è quello della comunione: dare fiducia alle persone che mi affiancano e suddividere con loro la responsabilità”.
La povertà è cambiata e tocca, in molti casi, anche chi lavora.
“Certo. Il costo della vita è aumentato e gli stipendi non corrispondono a questa crescita: i salari dei lavoratori italiani sono rimasti fra gli ultimi in Europa. É chiaro che questo incide quando, in famiglia, c’è una persona sola che lavora e ci sono figli da mantenere. Bisognerebbe ridurre la forbice tra costo della vita e salari, dando la possibilità di avere uno stipendio congruo. E magari adeguare anche molte forme contrattuali precarie, che impediscono un effettivo accesso al credito, soprattutto ai giovani”.
E poi c’è una povertà educativa…
“Un tema che mi sta particolarmente a cuore. C’è un cibo profondo che è quello culturale, che mette le basi per far diminuire anche la povertà materiale. Investire nella cultura, nel doposcuola, nella crescita umana è qualcosa che può incidere in modo potente sulla qualità della vita delle persone. Ai giovani bisogna dare basi maggiori, affinché possano trovare la propria strada. Altrimenti rimarranno forme di povertà praticamente ereditarie, come vediamo ogni giorno in Caritas: chi nasce in una famiglia che fa fatica, farà fatica anche lui ad accedere allo studio e a migliorare la propria condizione. Solo la crescita educativa riesce a incidere in modo forte, e a lungo termine, sulla qualità della vita”.
La Caritas per tutte le forme di povertà
Il disagio nei giovani cresce e si manifesta, talvolta, anche con la violenza.
“Tutte le epoche hanno portato con sé forme di disagio da parte delle generazioni più giovani. Non possiamo assolutizzare quello che stiamo vivendo oggi, come se fosse qualcosa che non è mai accaduto. Veniamo da generazioni che hanno fatto guerre immense! Certamente il problema del disagio giovanile non può essere affrontato in modo repressivo, anche se la giustizia va garantita. In questo senso, va elogiato il buon lavoro del Prefetto e del Questore di Verona. E mi metto a disposizione, per lavorare insieme, di tutte le amministrazioni e le associazioni del territorio provinciale. Credo che sia importante portare avanti una visione complessiva: cercare di capire le cause del disagio e dare una risposta umana e sociale. É un lavoro dove si semina tanto, e non si raccoglie tantissimo. Ma quello che si raccoglie è assolutamente importante. Meglio prevenire il disagio, per poterlo curare alle radici. C’è una voglia di vivere dei giovani, che viene gridata anche in questo modo”.
Qualcosa però è mancato.
“É venuta meno la prima forma di investimento su un patto educativo trasversale, che a livello sociale si è sgretolato. Non è più la società che si prende cura dei suoi cittadini più giovani, tutto è lasciato al caso. Bisognerebbe fare un lavoro di squadra maggiore, fra tutti coloro che hanno a cuore il bene delle generazioni future”.
Quali sono le tipologie dei beneficiari Caritas a Verona?
“Il Rapporto annuale dell’ottobre scorso evidenzia che si sono rivolte ai 51 centri di ascolto presenti sul territorio diocesano circa 3.200 persone: il 63 per cento donne, il 37 per cento uomini. Età: dai 35 ai 65 anni e oltre. Più del 60 per cento sono stranieri. Si rivolgono a noi soprattutto per problemi economici: povertà, reddito insufficiente, perdita del lavoro, occupazioni precarie, problematiche abitative, indebitamento”.
E poi c’è la grave marginalità.
“Una categoria vasta, che contiene un po’ di tutto: dalle persone che dormono per strada, agli stranieri appena arrivati in Italia con i barconi. Caritas deve occuparsi, e si occupa, di tutte le forme di povertà”.
Chi sono gli ultimi, nella ricca Verona?
“Sono quelli che, in modo evidente, si mostrano come ultimi. Ma anche quelli che fanno fatica a mostrarsi come ultimi però, di fatto, non riescono a provvedere alla loro vita. La categoria degli ultimi va allargata, perché proprio dove c’è maggior benessere, ci sono forme di disagio e di sofferenza”.
Voi parlate di solidarietà di comunità. Ma come arrivarci?
“Facendo rete tra tutte le persone che possono essere coinvolte, facendo un patto relativo al bene comune, creando una cultura della solidarietà”.
Anche la carità deve cambiare, trovando formule più consone ai bisogni…
“La carità, se è vera, è sempre creativa. Quando ero piccolo, se mi trovavo in difficoltà a imparare qualche poesia, i miei genitori mi dicevano: prova a costruire una canzone con le parole della poesia!”
Parliamo di immigrazione: cosa serve per integrare davvero chi arriva in cerca di un futuro?
“L’immigrazione è un problema complesso, che porta con sé tante questioni, anche di carattere internazionale. Credo che la prima cosa sia guardare le persone che arrivano qui come esseri umani: vedere che dietro ognuno di loro c’è una storia, una famiglia, dei fratelli, dei genitori. É partendo da qui, forse, che si può trovare una strada per un’integrazione che sia effettiva. Anche in questo caso, sono convinto che tutto parta da uno sguardo, dal modo che abbiamo di guardare questi uomini e queste donne. Certo, a livello globale servirebbe una maggiore distribuzione della ricchezza e una maggiore equità. Ma purtroppo questo Caritas non può farlo!”
Rossella Lazzarini