Le strutture corporative italiane bloccano ogni innovazione, con l’unico obiettivo di conservare l’esistente, con tutti i privilegi che comporta.
Se non si cambia l’orizzonte culturale del nostro Paese, adeguando i servizi alle esigenze di un sistema produttivo che si affanna a competere in un mondo sempre più aperto (burocrazia), la partita sarà persa: oltre al capitale umano più meritevole, che il Paese sta già perdendo, oltre a tutto il suo apparato industriale.
L’Italia è ormai un parco turistico e archeologico e un immenso mercato di consumatori.
Il peccato originale nasce dall’innesto della cultura comunista nell’impianto corporativo fascista, tanto riuscito da determinare una concezione “organicistica” della società che condanna tutti a un’appartenenza. La fusione delle due filosofie ha generato un mostro che ha dato vita ad un modello che condanna i giovani all’emarginazione.
Da questa visione statalista, sia di destra che di sinistra, sono nate le categorie (albi e non solo loro…) che imprigionano gli individui, le aziende e le attività in genere, all’interno di “gabbie” associative, all’interno delle quali la volontà del singolo si diluisce fino a disperdersi.
Ogni categoria cerca quindi di accaparrarsi la maggior quota possibile di sovranità per gestirla a vantaggio della propria consorteria e a spese della collettività. Man mano che il numero e il peso delle categorie aumentano, si riducono gli spazi di libertà dell’individuo. La conseguenza è che la politica viene schiacciata dal peso delle singole categorie, che puntano ad aumentare il loro potere e privilegi.
Lo Stato sostituisce l’accordo con le categorie all’interesse generale, perciò la legittimazione a governare scaturisce dall’assenso delle categorie e non dal consenso elettorale: concertazione e corporativismo coincidono.
Allo stato delle cose sembra impossibile riportare l’individuo al centro, liberandolo dalle manette delle corporazioni.
La cura, per essere efficace, dovrebbe rovesciare il condizionamento delle corporazioni sulla politica, consentendo a tutti gli “esclusi”, i non privilegiati, di organizzarsi e modificare il contesto generale e uscire dal “feudalesimo”.
Che senso hanno uno Stato e una democrazia che consegnano il cittadino allo “sfruttamento” delle corporazioni organizzate?
Ci sono sempre meno circostanze in cui si valorizzi l’apporto del singolo individuo, i referendum ne sono la testimonianza: la volontà dei cittadini viene spesso invalidata anche quando si raggiungono i quorum indicati dalla legge.
Nelle democrazie avanzate, alla rappresentatività si sta sostituendo la partecipazione e alla delega subentra l’intervento diretto, reso possibile dalle moderne tecnologie. In Italia le appartenenze contano più dei diritti e le libertà individuali sono considerate alla strenua di “cellule tumorali” da isolare e annientare.
Ritengo in ultima analisi, che l’attuale politica italiana non abbia ancora imboccato la necessaria strada dell’innovazione e del cambiamento e che quindi stia evidenziando tutti i propri limiti relativi alla propria incompatibilità con una società aperta e un’economia più di mercato. In questo contesto nazionale, mutatis mutandis, Verona potrebbe fare anche peggio.