Colpita. La nave più bella ed elegante al mondo. Un destino crudele, inaspettato. Una controversa tragedia del mare. Quella della turbonave Andrea Doria è una storia di attimi fatali e di decisioni cruciali, prese con concitazione, in una notte avvolta da una fitta nebbia.
Alle 23 circa del 25 luglio del 1956 partì un inevitabile conto alla rovescia che non si sarebbe mai pensato di dover fare. Quello che separò la collisione con la nave mercantile Stockholm, dal completo inabissamento dell’Andrea Doria. “L’Andrea Doria non può affondare” era l’accorata speranza di tutti. Si sbagliavano. Aveva ragione un vecchio marinaio che commentò così il fatto, con cinico realismo “L’oceano è cattivo. Quando ha sete beve tutto”.
1241 passeggeri e 580 membri dell’equipaggio. L’Andrea Doria, transatlantico italiano punta di diamante della flotta italiana, varata nel giugno 1951, era l’emblema del genio creativo italiano e della rinnovata abilità industriale di un paese uscito frantumato dalla Seconda Guerra mondiale. Gli interni lussuosi erano stati arredati con opere artistiche e mobili di notevole valore.
Al comando della nave lunga 214 metri e larga 27, in quel viaggio, c’era un capitano insignito di numerose onorificenze, in virtù degli atti di coraggio operati nel corso della sua quarantennale esperienza, Piero Calamai.
La melodia frizzante e confortante di “Arrivederci Roma” faceva compagnia a chi ancora non si era deciso a ritirarsi nella propria cabina e ballava spensierato, nella convinzione che fosse troppo presto per andare a preparare il bagaglio. “È l’ultima notte prima dell’arrivo a destinazione ed è giusto onorarla a dovere”, probabilmente pensarono. La nave, diretta a New York, dove sarebbe giunta l’indomani, ad una velocità di 22 nodi, si trovava in quel momento al largo della costa di Nantucket.
In quegli stessi istanti, la Stockholm, un transatlantico svedese per il trasporto di merci e passeggeri, si dirigeva verso Göteborg ad una velocità di 18 nodi. Di guardia in plancia della Stockholm vi era il terzo ufficiale di coperta Carstens-Johannsen. La coltre di nebbia appariva insondabile e inestricabile. È per questa ragione che l’Andrea Doria non cessò l’emissione di fischi, obbligatori in caso di nebbia. Pratica che non venne, invece, rispettata dalla Stockholm.
Bastavano 10″ per evitare lo scontro
Ed è quando le navi riescono a scorgersi vicendevolmente ad occhio nudo, che la drammaticità dello scenario emerge violentemente: è troppo tardi per scongiurare l’impatto, l’Andrea Doria si trova in rotta di collisione.
Si tratta di attimi, ma va custodita la ragione, al di là della tragicità del momento. L’ordine di Calamai è perentorio: una accostata a sinistra e prepararsi all’imminente scontro. Sarebbero serviti altri 10 secondi per scongiurare lo speronamento.
Si avvertì un mostruoso boato e uno scontro di smisurata entità. La prua rompighiaccio della Stockholm squarciò la facciata destra, strisciando sulle lamiere, fino a poppa. La “ferita” fu enorme: 20 metri di lunghezza, 12 di larghezza e 10 di profondità.
Perdono la vita, nell’impatto, 46 persone che in quel momento si trovavano nelle cabine interessate dalla collisione.
Lo scafo si inclinò immediatamente. “L’acqua entrò con forza da ogni parte e l’allagamento mise fuori uso i generatori di corrente. Scesi in coperta il tempo di un minuto e quando risalii la nave era già sbandata di 22 gradi. Tutte le lance di salvataggio del lato sinistro rimasero bloccate”, racconta Egidio D’Alessandro, allora cameriere dell’Andrea Doria.
“Capitano Calamai, scenda dalla nave o restiamo qui con lei, moriremo assieme”
Calamai lanciò l’SOS, organizzando quella che viene considerata la più prodigiosa operazione navale di soccorso della storia, assicurando il salvataggio di tutti i passeggeri sopravvissuti all’impatto. 5 navi risposero, oltre alla stessa Stockholm. In particolare, il transatlantico Ile de France, diretto in Europa, invertì la rotta per raggiungere l’Andrea Doria alla massima velocità possibile.
“La gente correva, piangeva… la nave si è messa sottosopra, mezza nell’acqua e mezza fuori. Hanno preso le funi, hanno detto che dovevamo scendere con le funi” racconta una sopravvissuta intervistata in un documentario.
Fondamentale l’ordine di Calamai di tenere in funzione sino allo stremo gli impianti elettrici e il coraggio degli uomini della sala macchine, giù “nell’inferno”. Continuarono a mantenere in funzione l’illuminazione durante le operazioni di soccorso, in piena notte. Provarono inoltre a raddrizzare la nave anche quando la questa raggiunse un’inclinazione di 38 gradi.
Tra gli ulteriori meriti di Calamai: ritardò il più possibile il segnale di abbandono della nave, per non causare panico. E non solo. A passeggeri totalmente evacuati, Calamai non voleva abbandonare l’Andrea Doria per morire con essa. Gli ufficiali, tornati indietro per dissuaderlo, lo dovettero “minacciare” di risalire tutti per morire con lui, per convincerlo a scendere, per ultimo, su una scialuppa.
Dopo 11 ore di agonia, l’Andrea Doria affondò.Al naufragio seguirono indagini e polemiche circa le cause del disastro, alimentate anche da motivi politici e interessi economici. Nel corso di queste, l’immagine di Calamai fu ingiustamente macchiata, e solamente recenti rivelazioni e studi hanno riabilitato la figura di Calamai e confermato la correttezza del suo operato.
Quando nel 1972 morì, dagli Stati Uniti stava giungendo una lettera di un ingegnere navale in pensione, Carrothers, contente espressioni di vivissima solidarietà. Sottolineava che ci erano voluti più di 12 anni per dimostrare la responsabilità svedese. La lettera terminava con queste parole: «Abbia per certo, Capitano Calamai, che ci sono molti di noi che sarebbero più che disposti a prestare servizio ai suoi ordini in qualsiasi momento».
Fu una notte di dilemmi risolti con coraggio. Una pagina triste, ma di indubbio eroismo.
E come tale va raccontata e ricordata nel nostro immaginario: con la saggezza del capitano Calamai, con la solidarietà mostrata dalle imbarcazioni giunte in soccorso, con l’accoglienza commossa dell’Ile de France, e, infine, con un gruppo di ufficiali di notevole spessore umano che hanno lottato con tenacia fino all’ultimo per salvare i passeggeri e la nave.
Stefania Tessari