L’analisi delle “baby gang” di Andreoli “Quando il gruppo si trasforma in branco, con un leader, diventa un problema”

Invitato dal presidente della Prima Commissione Andrea Bacciga, il professor Andreoli, autore del libro, uscito lo scorso febbraio per Rizzoli, Baby Gang – il volto drammatico dell’adolescenza, ha descritto uno scenario delle nuove generazioni che, nell’era dei social network e della realtà virtuale, sono spesso incapaci di relazionarsi con la famiglia e con l’ambiente circostante, senza distinzione di ceto sociale. All’incontro erano presenti i consiglieri della Lega, membri della Quinta Commissione Alberto Zelger e Laura Bocchi.
Quattro sono i punti fondamentali, riconosciuti scientificamente, dell’origine del fenomeno baby gang: «Gli adolescenti, in generale, si ritrovano in gruppo per la loro identità, cioè per potersi distinguere dagli altri riconoscendosi tra simili, in nucleo di appartenenza – ha spiegato Andreoli –. Tra i giovani è fondamentale poter riunirsi con individui di pari età che condividono gli stessi problemi. Relazionandosi, si specchiano l’uno con l’altro e insieme si crea fiducia e stima in se stessi. Al di fuori del gruppo, l’adolescente, preso singolarmente, si sente in difficoltà, anche di fronte alla famiglia – che non rappresenta più quel conforto dell’infanzia. Di per sé il gruppo di pari età non è un qualcosa di negativo. All’interno del gruppo gli adolescenti sono tutti sullo stesso piano». Il problema sorge nel momento in cui viene a mancare l’equilibrio della parità: «quando il gruppo si trasforma in un branco, dove c’è un leader dominante, e gli altri impersonano il ruolo dei gregari» ha sottolineato lo psichiatra.
Il secondo punto fondamentale all’origine del fenomeno è costituito dalla violenza: «la violenza è una modalità per esprimersi e compensare la frustrazione. Durante l’adolescenza l’individuo vive una metamorfosi. C’è una grande insicurezza e il cambiamento genera paura, che a sua volta può sfociare in violenza. Per affrontare la violenza è necessario conoscere la paura».
Il terzo punto è rappresentato dall’ambiente sociale e geografico in cui si vive: «società, famiglia e amici influenzano l’adolescente. Bisogna pensare che non c’è mai solo la storia di quel giovane, ma la storia di quel giovane inserito in una comunità».
Il quarto e ultimo punto del fenomeno è «la tendenza a uccidere e voglia di ammazzare – ha concluso Andreoli –. La morte che ha perso ogni significato, non ha mistero, non esiste più il lutto e non si considerano le perdite. Si uccide oggi senza la percezione della morte, che si è ridotta a essere vista come un qualcosa per togliere un ostacolo, senza provocare sensi di colpa».

Il commento

«I social network non sono negativi – ha illustrato Andreoli –, ma guardando all’influenza che hanno sugli adolescenti sarebbero da chiudere. Le relazioni virtuali sostituiscono quelle reali, che vengono pian piano abbandonate. Oggi l’adolescente è attento a ciò che fa e dice il suo gruppo sui social e si misura e si confronta con gli altri. Ma mentre in un social se qualcosa non piace basta cliccare il tasto “cancella”, nella vita reale ciò non è possibile».
Per risolvere questi problemi Andreoli fa una differenza tra strategie programmate e immediate. Nel caso delle immediate si configura una situazione in cui una baby gang che si esprime con atteggiamenti contro le regole viene punita dalle autorità. Se da un lato l’intervento delle Forze dell’Ordine è più che legittimo, dall’altro questi soggetti vengono maggiormente attratti da violenza e forza, che rappresentano uno stimolo che gratifica la loro frustrazione.