L’America Latina lascia a desiderare – di Maria Letizia Cilea Il terzo lavoro dei gemelli d’Innocenzo non convince, nonostante un grande Germano

Massimo Sisti è un igienista dentale con uno studio a suo nome, uno stile di vita sobrio, due figlie adolescenti e una moglie. La sua villa si erge su una zona collinare nei pressi di Latina, una volta alla settimana si vede con l’amico di una vita per bere una birra, e la sua vita sembra procedere nella più assoluta, quotidiana, normalità.
Durante una giornata tranquilla, ordinaria e identica alle precedenti, l’assurdo irrompe nella sua vita: fulminatasi una lampadina, Massimo scende in cantina per recuperarne una nuova e nel suo sottoscala scopre qualcosa di totalmente inaspettato.

Un’inquietante normalità. Dopo l’enorme talento dimostrato con i precedenti La terra dell’abbastanza e Favolacce, i gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo propongono il loro terzo lungometraggio in poco meno di quattro anni, continuando a esplorare il territorio oscuro della psiche umana e l’impenetrabilità delle sue dinamiche. Presentato in concorso lo scorso settembre alla 78ª Mostra del Cinema di Venezia, America Latina racconta la storia dell’uomo più comune, la cui vita viene sconvolta da un avvenimento incomprensibile che rivoluzionerà le coordinate della sua esistenza, gettandolo in una realtà dal significato impenetrabile a metà tra verità, finzione e oblio psichico: la classica struttura del thriller psicologico moderno, insomma, che riecheggia nel titolo del film e soltanto in quello, perché purtroppo l’operazione di ri-ambientazione di uno dei generi più prolifici del cinema americano è quasi del tutto fallimentare.

Il passo falso dei gemelli geniali. Portando agli estremi le peculiarità di una loro poetica cinematografica fatta di subconscio, incubo e ineffabilità del trauma, in America Latina i D’Innocenzo lavorano per sottrazione, lasciando alla messa in scena e all’interpretazione dell’eccelso Elio Germano la responsabilità di far emergere cause, sviluppo ed esiti tanto della spinta narrativa quanto dei colpi di scena e dell’esplorazione psicologica dei personaggi: una scelta concettualmente raffinata, ma poco efficace quando la struttura del racconto risulta di per sé fragile e i personaggi poco caratterizzati sin dalle prime fasi della loro presentazione.

Una fotografia oscura. Un certo sfilacciamento della trama si affianca poi a posizioni estetiche anch’esse estreme, con una fotografia scura e claustrofobicamente serrata nei primi piani dei volti. Chi guarda si ritrova dunque rinchiuso insieme al protagonista in un vero e proprio incubo: l’intenzione dei due autori è fin troppo chiara, ma alla fine dei giochi l’esperienza di visione finisce per annoiare lo spettatore, già indirizzato da tempo verso la risoluzione di un mistero che di per sé ben poco aveva di misterioso e appassionante. Un vero peccato per i due registi romani, che in passato avevano già dimostrato di avere un occhio filmico straordinario e che qui sembrano invece aver perso le coordinate della loro stessa storia.

VOTO 5