“Una bomba avvolta in nastri di seta”. Così il critico d’arte e teorico del surrealismo Andrè Breton definiva Frida Kahlo e così lo spazio culturale veronese “Modus produzioni. Orti Erranti” ha intitolato lo spettacolo recentemente proposto nei teatri Camploy e Modus. La rappresentazione, con la regia di Andrea Castelletti, mette in scena un monologo di Laura Murari e svela, attraverso la trasposizione di alcune opere pittoriche, l’esperienza della messicana Frida Kahlo. La narrazione teatrale è il risultato di una lunga ricerca sull’attività e sul pensiero di un’artista universalmente considerata icona di emancipazione e attaccamento alla vita. Frida, nata nel 1907 in un villaggio alle porte di Città del Messico, già in giovanissima età manifesta forte personalità e grande avversione nei confronti delle convenzioni sociali. A 18 anni un episodio segna profondamente la sua esistenza: l’autobus su cui viaggia si scontra con un altro mezzo e lo schianto le procura lesioni gravissime che la accompagneranno per sempre. La forzata immobilità e una salute già segnata da una malformazione congenita, bloccano il fisico ma non lo spirito spingendola a studiare, a impegnarsi politicamente e a dipingere. Il ricordo del tragico incidente fa diventare i suoi lavori un meticoloso resoconto di stati interiori, memorie, tabù indicibili da infrangere. Nelle tele traspare una bellezza lontana dai luoghi comuni e un’identità che rifugge le consuetudini misogine. Il corpo martoriato non ferma la passione di donna e non blocca le relazioni d’amore che, in tutta la loro intensità, emergono in vari ritratti. Frida è una persona energica e fragile, che lotta con tenacia il male e prova sempre a vivere col sorriso. L’arte per lei diventa un’esperienza fondamentale tanto da farle affermare “sono felice di essere viva, purché io possa continuare a dipingere”. Così, nello spettacolo di Modus, si alternano più espressioni dell’artista: la narrazione attraverso gli scritti (emersi dai suoi diari), la musica, il folklore della terra natale, le scene fantastiche con figure che si muovono tra la concretezza del reale e i desideri dell’universo onirico. Giochi di ombre svelano più identità e riportano alla luce gli “autoritratti” resi possibili dall’immagine riflessa su uno specchio (regalo della madre nel periodo successivo all’incidente) posizionato sopra il letto della malattia. “Dipingo me stessa perché sono il soggetto che conosco meglio” racconta e la riproposizione visiva della sofferente diventa un vero e proprio atto creativo. Frida si ritrae in oltre cinquanta opere restituendo, di volta in volta, letture parziali di vita. Lo specchio, al tempo stesso riflesso di verità e di inganno, diventa mezzo rivelatore di lati oscuri liberati e proiettati sulla tela. La Kahlo, per riuscire a riprodurre se stessa come oggetto, in un certo senso compie uno “sdoppiamento” che le consente di vedersi da dentro ma anche di percepirsi come “altro fuori di sé”. Ne esce un racconto autobiografico nel quale l’artista, quasi in un corpo a corpo, si re-intrepreta in un gioco speculare. Il costume della protagonista richiama visivamente il dipinto “La colonna rotta” che la ritrae intrappolata, dopo l’intervento chirurgico, in un duro corsetto con la pelle ferita da chiodi, la colonna vertebrale fratturata, lo sguardo colmo di lacrime bianche. Invece, nella scenografia, trova spazio il dipinto “Le due Frida” nel quale la doppia immagine di sé mostra significati culturali e sociali contrapposti ma comunque uniti da una stretta di mano. Le due donne, forse, ci parlano di un ego frammentato che tenta di emergere sopra un cielo nuvoloso e confuso.
Chiara Antonioli