“La mia pittura tende a una visione e si riferisce al mio punto di vista assoluto perché la visione è invenzione soggettiva” scriveva, nel 1959, Antonio (detto Toti) Scialoja, artista poliedrico proposto dalla Galleria dello Scudo di Verona nella mostra “Toti Scialoja. Impronte. Opere 1957-1963”, aperta fino al prossimo 20 marzo. Il percorso espositivo e il “Catalogo generale dei dipinti e delle sculture 1940-1998” (pubblicato da Silvana Editoriale) sono curati dal critico e studioso Giuseppe Appella in collaborazione con la fondazione romana dedicata a Scialoja. Il progetto si focalizza sul periodo che va dal 1957 al 1963 nel quale l’artista abbandona la tradizione della figurazione per guardare all’astrazione e alla ricerca di diversi linguaggi materici. Questa svolta lo porta a orientarsi a una sempre maggiore emancipazione espressiva (nella pittura, nella poesia, nella scrittura) tramite sperimentazioni creative e riflessioni estetiche spesso annotate sul diario intellettuale “Giornale della pittura”. Nel nuovo itinerario, spiega il curatore, la produzione sembra liberarsi del sistema formale dell’arte per confrontarsi “con immagini che affiorano alla coscienza dall’ignoto”. In tale prospettiva nascono le opere concepite con la tecnica dello “stampaggio” nelle quali un materiale intriso di colore è rovesciato sulla tela e impresso “battendo forte con le mani”. La modalità consente di comunicare direttamente le emozioni e affidare alla casualità gli esiti finali dell’impronta. I primi lavori dell’innovativo filone nascono quasi per caso (nell’estate del 1957 a Procida) e sono considerati il preludio di una singolare esperienza stilistica successivamente riconosciuta come arte astratta in tutta Europa. Le impronte vengono definite con una gestualità che allinea, in serie, i disegni oppure li fa apparire sdoppiati e sovrapposti. Questa pittura senza i pennelli (così “ubbidienti al polso”) e senza i classici colori (sostituiti da sabbie e polveri unite con un collante vinilico) permette di ottenere “una presenza rugosa e materica” simile all’intonaco. Come riferisce lo stesso Scialoja “dipingo con lo straccio intriso di colore molto liquido, ora a modo di spugna, ora assottigliando il panno e riducendolo un solo filo”.
L’immagine impressa con tale metodica risulta immediata, incorreggibile e trasmessa nella sua totalità. La sperimentazione prevede di abbandonare il cavalletto per dipingere con la tela di canapa grezza stesa sul pavimento e l’interessante mostra ideata dalla Galleria dello Scudo offre oggi una testimonianza tangibile di questo spaccato espressivo. All’ingresso dello spazio espositivo l’attenzione è subito catturata da due opere emblematiche del 1958, “Sabato sera” e “Rosa rosae”, nelle quali le superfici appaiono sature di rossi, rosa e arancioni. L’uso dei colori accesi, nella produzione successiva, viene abbandonato con impronte solcate di grigio e bianco, raccolte e isolate, generate da materiali non canonici quali carte, garze, merletti, pizzi e corde che permettono di rilasciare, sul supporto, insoliti punti di vista. Ne sono esempi “Issoire argento”, “Ininterrotto” e “Ripetizione sabbia” rappresentative di una fase nella quale le impronte diventano seriali, con disegni disposti in sequenza, attraverso un ritmo che alterna pieni e vuoti, presenza e assenza, intensità e pausa. La proposta visiva di Scialoja è caratterizzata da quella che lui stesso definisce la “regola della ripetizione”. Lo sguardo scorre su un orizzonte formato da una geometria di multipli che segnano il fluire del tempo come a mostrarci un primo e un dopo, quel che è stato e quello che ancora non conosciamo.
Chiara Antonioli