La stessa domanda. “Com’è possibile?”. Lo stesso dolore. E un ricordo, ogni volta diverso. Il giorno dopo, senza Roberto Puliero, è un giorno triste. La città s’è svegliata senza una delle sue voci più belle. Più forti. Più autorevoli. Per via del calcio, certo. Perchè il calcio, lo sport, te ne accorgi in momenti come questo, sono uno straordinario messaggio che unisce tutti. Perché Puliero era stato la voce di un sogno, quello dello scudetto.
Per via della sua straordinaria Barcaccia, perché tutti, chi prima o chi dopo, chi ieri e chi ieri l’altro, la Barcaccia l’avevano vista. Seguita. Apprezzata. Per via, anche, di quei suoi unici, inimitabili, personaggi. “Gennaro Caputon, chi non lo conosce?”. E don Bortolon, parroco di Cavaion?
Siamo tutti cresciuti con lui, questa è la verità. La sua voce, la sua cultura, la sua ironia, ci hanno accompagnato per anni, nel calcio e nella vita e adesso che se n’è andato, ti resta dentro il dolore che c’è quando se ne va un amico. Un amico di tutti. Uno che era entrato nelle case di tutti, con la sua voce, le sue radiocronache, autentiche perle, infilate una dopo l’altra, da quella famosa domenica, là a Firenze, era il Verona di zio Uccio Valcareggi. Gol di Busatta e Zigoni, il Verona che vince, un segno del destino.
Da allora, per tanti, lunghissimi anni, mai un’assenza. Mai. Il sabato sera a teatro, poi la partenza per arrivare in tempo allo stadio, quasi che senza di lui, il Verona non giocasse. L’anno dello scudetto, poi le Coppe, ma anche la discesa in B, l’amarezza della C, gli stadi vuoti di Marcianise o di Gubbio. Lui c’era. E il suo grido di battaglia, non era mai cambiato. “Reteeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee”, sia che a segnare fosse Preben Elkjaer, sia che il bomber si chiamasse Sforzini. O Morante. Fino alla Pro Patria e a una serie C ripresa per un pelo. L’urlo di Busto Arsizio, per una C2 evitata all’ultimo, resta una delle cose più emozionanti.
E nel frattempo, sempre avanti, sempre in Barcaccia, un testo nuovo, o un Goldoni da rivisitare, artista vero, completo. Uno di quelli che, probabilmente, avrebbe potuto cercare (e trovare) fortuna anche “fuor da queste mura”,ma che ”a queste mura” era legato a doppio filo. Gli sarebbe parso un tradimento, lasciare Verona. La sua città. Quella dove tutti lo conoscevano, tutti gli parlavano, tutti lo cercavano. Dove aveva pure insegnato, lettere, ovviamente, distribuendo ai ragazzi pezzi di cultura e di grande umanità. Verona era casa sua, lui c’era per tutti.
Una festa, una serata, poesie in dialetto, o la “poesia del balòn”, come titolò un suo libro in rima, sugli “eroi” del calcio gialloblù. Non se ne sarebbe mai andato. Solo il destino, maledetto, poteva portarlo via così.
Raffaele Tomelleri