Un’eccellenza tra le gallerie del mondo
Da Tangeri ne ha fatte di tappe prima di arrivare a Verona, dove ha aperto lo studio La Città
Dall’arte medievale all’arte contemporanea, passando per i fumetti. E dopo aver girato mezzo mondo, al seguito del padre ambasciatore. Da 54 anni Hélène de Franchis espone e vende arte contemporanea dei maggiori artisti italiani e internazionali nella sua galleria Studio la Città di lungadige Galtarossa 21. Un record assoluto in Italia. Figurarsi per Verona, città periferica rispetto al mondo dell’arte italiano. Ha ricoperto la carica di presidente dell’Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea e per molti anni è stata membro del comitato di ArteFiera Bologna. Alla fine degli anni ’90 ha fatto parte del comitato della Fiera d’arte contemporanea di Chicago. Nel 2011 le è stato conferito il prestigioso premio internazionale F.E.A.G.A. (Federation of European Art Gallery Associations) Lifetime Award, creato per riconoscere le gallerie europee di eccellenza.
Dottoressa de Franchis, le origini della sua famiglia?
“Napoli, sia mio padre che mia madre”.
Lei dove è nata?
“Sono nata in Marocco, a Tangeri, e poi con la mia famiglia ho vissuto in diversi Paesi, essendo mio padre un diplomatico italiano. Abbiamo abitato a Gibilterra, Damasco, New York, Città del Messico e poi ad Harare, allora Rhodesia, dove ho conosciuto il mio futuro marito”.
Quindi studi complicati…
“Molto complicati: scuola inglese in alcuni Paesi, scuola francese in altri. Per fortuna il francese lo sapevo da piccola perché mia madre, come tutti i napoletani di famiglia aristocratica, in casa con sua madre parlava in francese”.
Però la laurea a Roma.
“Roma era la nostra città di riferimento. Mi sono laureata in storia dell’arte con una tesi sull’architettura cistercense. Nel contempo frequentavo l’Accademia di Belle Arti, perché mi sentivo già molto attratta dal mondo dell’arte”.
Poi da Roma a Londra.
“Avevo iniziato a fare la fotografa e collaboravo con un mio caro amico grafico e illustratore, Stepàn Zavrel, cecoslovacco. Fu lui che mi convinse a trasferirci a Londra per lavorare nel mondo dei cartoni animati. Intanto, nel 1967, mi ero sposata con Oliver Sutton. Abitavamo in campagna, fuori Londra. L’anno successivo, non ho mai capito perché, Stepàn comprò una casa in Veneto. Fu lui a propormi di venire a Verona, dove un gruppo di investitori voleva aprire una galleria di arte moderna”.
Londra-Verona: un bel salto!
“Già, infatti all’inizio rifiutai. Poi mio marito mi incoraggiò. E forse mi annoiavo un po’ nella campagna inglese! Così quando Stepàn mi ricontattò, nel 1969, dicendo che a Verona la sede era pronta e mi aspettavano per decidere le luci, accettai. Feci il trasloco con un furgoncino Volkswagen e un figlio di 2 anni, Francesco”.
Così nacque la galleria La Città in vicolo Samaritana 10. Chi erano i suoi soci veronesi?
“Erano otto. Ricordo Giancarlo Ferro, Carlo Delaini, il professor Confortini. Avevano grande entusiasmo, ma erano anche molto impegnati, oltre ad essere meno coraggiosi di me nelle scelte artistiche. Io volevo inaugurare la galleria con una personale di Lucio Fontana, che avevo conosciuto giovanissima a Roma e che era morto da un anno. Avevo avuto in prestito tre multipli dalla direttrice della galleria Marlborough di Roma, un’amica. Ma i miei soci erano perplessi, non lo capivano”.
Il suo sogno è che si realizzi ArtiVer
L’esposizione che riunisce le gallerie di Verona. Ma bisogna sistemare Palazzo Forti e in fretta
Per questo dopo un anno la società si sciolse?
“Erano troppo impegnati e dopo il primo anno sparirono. Inoltre nel 1970 Delaini era diventato sindaco. Così rilevai io la galleria e la chiamai Studio la Città”.
I primi anni?
“Molto difficili, ma riuscii a cavarmela. Pensai che la cosa più giusta da fare fosse tornare a Londra e occuparmi di importare giovani artisti inglesi, fra i 28 e i 40 anni, che avevano già esposto alla Tate Gallery. Poi nel ‘73 andai a New York. Avevo capito che dovevo cercare di “allargare”: perché a Verona o esponevi le vedute di piazza Erbe, o era difficilissimo”.
Ma chi comperava arte contemporanea a Verona?
“C’erano due collezionisti che compravano in società: Mario Orsatti e Luciano Antonini. Erano veramente “illuminati”: avevano una collezione straordinaria, conservata in un appartamento che avevano affittato in Valdonega. Nessuno dei due parlava inglese, quindi quando andavo negli Stati Uniti mi accompagnavano. E poi c’era il professor Renato Da Pian, neurochirurgo, che amava l’arte contemporanea e trascinava gli amici ad acquistarla e, ovviamente e fin dai primi anni, Giorgio Fasol che ancora oggi frequenta assiduamente la galleria. Ma sono sopravvissuta grazie alle fiere internazionali, quando ho cominciato ad avere collezionisti stranieri importanti”.
Nel 2001, al termine del restauro, in Gran Guardia venne esposta la collezione del conte Giuseppe Panza di Biumo. Fu lei l’artefice?
“Mi chiamò il sindaco Sironi e mi chiese un’idea per inaugurare la Gran Guardia. Io stavo andando a Bilbao, dove il conte Panza aveva prestato una parte della sua collezione per inaugurare il nuovo museo. Conoscevo Panza da anni, eravamo amici, con lo stesso gusto in fatto di artisti. Dissi al sindaco: se vi interessa, possiamo fare la stessa cosa anche a Verona”.
Parliamo di ArtiVer, il progetto lanciato dal presidente della sesta commissione Alberto Battaggia: riunire galleristi e collezionisti per avviare un’attività espositiva durante tutto l’anno. Lei ci crede?
“Spero veramente che qualcosa si riesca a fare. Le cinque gallerie veronesi, incredibilmente, sono d’accordo fra loro. Adesso il problema è lo spazio. Per sistemare palazzo Forti ci vuole troppo tempo. Noi abbiamo detto all’amministrazione che si deve fare in fretta. Bisogna iniziare comunque, anche con una sede temporanea, in attesa di trovare lo spazio adeguato”.
Che spazio servirebbe?
“L’arte contemporanea ha bisogno di spazi ampi, alti, neutri e luminosi”.
Quindi non vede criticità nel progetto.
“No, se partisse, sarebbe bellissimo. Sarebbe la prima volta in Italia che un’amministrazione sponsorizza un gruppo di gallerie, lasciando la libertà di scegliere un programma”.
Cosa ama di più del suo lavoro?
“La possibilità di vivere in mezzo a quello che mi interessa. In questi anni ho imparato tantissimo dagli artisti e ancora imparo. Il bello del mio lavoro è essere in mezzo alla creatività. Veder lavorare i giovani artisti è assolutamente affascinante”.
E cosa non le piace?
“La parte diventata così burocratica. E noiosa”.
Ha qualche rimpianto?
“No. La mostra per i 35 anni della galleria l’ho chiamata Je ne regrette rien. E quella per i 50 anni si intitolava Quello che non ho venduto. Certo mi dispiace non aver fatto alcune mostre di grandi artisti che amo, ma se non le ho fatte è perché non avevo le finanze sufficienti. Non ho mai avuto sponsorizzazioni. Tutto quello che ho potuto l’ho fatto”.
Rossella Lazzarini