Accabadora di Michela Murgia (2009, Giulio Einaudi Editore)
“Le colpe come le persone, iniziano a esistere se qualcuno se ne accorge”. E’ nell’assenza di giudizio sul volto di Maria, sei anni e un pugno di ciliegie rubate, che Tzia Bonaria si riconosce. Ed è nell’accorgersi di quella “colpa” che la donna vede la bimba che la compie e la sceglie come figlia. Fillus de anima è infatti il bambino che ha due madri, quella naturale e quella adottiva. La Sardegna degli anni Cinquanta è una frontiera tra due mondi, un groviglio di consuetudini ancestrali, di fatti che si sanno e che non si dicono. Tzia Bonaria prende con sé Maria, quarta figlia di una vedova che non sa come mantenerla. A poco a poco la bambina, comprende quale sia il ruolo della madre adottiva nella comunità. Lo realizza come le cose che in fondo si sono sempre sapute e non si sono mai volute dire. Acabar in spagnolo significa finire e “accabadora”, in sardo, è il nome di colei che finisce, di chi aiuta a mettere una fine quando da sola stenta ad arrivare. Potrebbe essere un libro sul legame tra madre e figlia, una storia sui vincoli della maternità biologica e non, un romanzo che traspone il tema dell’eutanasia su un piano onirico. Ma ciò che veramente affiora è la necessità di sospendere il giudizio. Perché non si possono emettere sentenze. Non si può giudicare il come senza capire, senza “sentire” nella carne il perché. Non si possono dare nomi a cose che non si conoscono. G.T.